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 2022  maggio 13 Venerdì calendario

Biografia di Tim Roth (Timothy Simon Roth)

Tim Roth (Timothy Simon Roth), nato a Londra il 14 maggio 1961 (61 anni). Attore. Regista. «La mia fortuna è stata non essere bello: non ero un bel ragazzo. E molti degli attori che sono entrati in quella categoria, attori magnifici, dopo un po’ hanno cominciato a interpretare ruoli davvero poco interessanti. Sono stato fortunato ad avere il mio aspetto. All’epoca essere considerato insolito secondo gli standard cinematografici mi ha aiutato. Mi ci sono tuffato: ho cercato di fare sempre cose interessanti e strane. Spesso sono stati antagonisti, personaggi insoliti. Amo l’anarchia della mia carriera» (a Valentina Ariete) • «Figlio di una pittrice di paesaggi e di un giornalista di sinistra, Tim Roth è cresciuto in una casa medio-borghese con pochi soldi ma tante frequentazioni artistiche» (Arianna Finos). «Suo padre, […] a inizio Novecento, da Brooklyn arrivò a Liverpool in cerca di lavoro. […] “Mio padre è arrivato in Inghilterra poverissimo, e a 11 anni lavorava già in una fabbrica di mattoni. Poi, quando era un po’ più grande, nei campi di luppolo, fino allo scoppio della guerra. Il suo viaggio dentro la guerra è stato straordinario. Nel V-Day, per la liberazione si trovava in Italia. La sua è stata davvero una migrazione al contrario, e […] vorrei raccontarla”» (Paola Piacenza). «“Era un bambino maltrattato, mio ​​padre, ed è stata un’infanzia terribile quella che ha avuto”. […] Quando Roth fece il suo debutto alla regia, Zona di guerra (1999), basato sul romanzo di Alexander Stuart su un padre che abusava di sua figlia, rivelò, senza troppe elaborazioni, di aver subìto abusi da bambino. Ora sta dicendo che anche suo padre ne aveva subiti? Lui annuisce. “Era un’anima danneggiata. L’ho amato. Era troppo divertente. […] Subì abusi. E anch’io. Ma non subii abusi da lui. Subii abusi dal suo aguzzino”. Lo stesso molestatore? “Sì. Era suo padre”. Il nonno di Roth. La sua voce cala. “Era un fottuto stupratore. Ma nessuno aveva la lingua. Nessuno sapeva cosa fare. Ecco perché ho realizzato Zona di guerra”» (Rory Carroll). «Nato Smith, il padre Ernie diventò Roth per solidarietà con le vittime dell’Olocausto e perché quel cognome british era marchio rischioso nelle aree del mondo che più frequentava (tra le foto che lo ritraggono, portavoce socialista, ce n’è una insieme al colonnello Gheddafi). Per Tim i genitori sognavano il prestigioso Dulwich College e un corso di scultura, ma il ragazzo fu bocciato e gli toccò la Tulse, gigantesca e decadente istituzione per duemila allievi dei quartieri operai. “Un incubo”. Mingherlino, era costantemente vittima di bullismo» (Finos). «Ho letto che a scuola fingeva un accento proletario per salvarsi dai bulli. […] “Avevo un accento della media borghesia, e nella mia scuola, se lo sentivano, ti picchiavano all’istante. Fu la prima volta che inventai un dialetto: ci misi tre giorni”» (Margherita Corsi). «Qual era il poster che avevi in camera da ragazzino? “Jimi Hendrix, Marc Bolan dei T. Rex e ovviamente Bowie. Musica: niente cinema. All’epoca nemmeno pensavo che avrei fatto l’attore”. Dunque hai cominciato per caso? “Totalmente: ho fatto un provino per un musical scolastico, mi sono offerto quasi per scherzo. Alla fine quella burla mi si è rivoltata contro: interpretavo Dracula di fronte a tutta la scuola. All’inizio me la facevo sotto: a poco a poco ho sentito che mi piaceva…”» (Pierpaolo Festa). «Ho dovuto cantare e ballare davanti a tutti i bulli della scuola. E sono stato picchiato dopo. Ma ho capito che era la mia strada». «Venni stregato dalla recitazione. […] Poco dopo quella prima esperienza lasciai la scuola e iniziai a lavorare in teatro, cinema, tv». «“La cosa buona dell’inferno di Tulse è stata l’esperienza di certe tipologie comportamentali che poi ho messo nella recitazione”, commenta Roth, nel 1982 skinhead nichilista per la tv. “Ancora oggi quello resta uno dei miei personaggi topici: avevo scoperto che con la macchina da presa potevo sprigionare tutta l’energia che mi bruciava dentro”. […] Adolescenza punk, consumata nella Londra di periferia. Era l’inizio degli anni Ottanta e in cima alla lista dei desideri dell’aspirante attore c’era la trinità Coppola-Kubrick-Scorsese. Tre lettere scritte a mano, altrettanti messaggi nella bottiglia. […] “Ero carne da palcoscenico: uno dei troppi giovani attori teatrali disoccupati a Londra. Volevo disperatamente lavorare al cinema, ma non avevo idea dei meccanismi e nessuna conoscenza in quell’industria. Così presi una bella carta da lettere e scrissi: ‘Caro signor Coppola, amo i suoi film. Se mai le servisse un attore britannico, sono il suo uomo’. Nella busta misi anche una mia foto”» (Finos). «Mentre a Londra il movimento punk cresceva, lei, con Gary Oldman, Colin Firth, Daniel Day-Lewis, il “Brit Pack”, ha dato l’assalto a Hollywood… “Che stupidi eravamo… Sembra ieri. Nel 1979 era uscito Quadrophenia e avevamo capito che qualcosa stava succedendo. E che era arrivato il nostro turno… […] Fino a quando siamo entrati in gioco noi, negli anni ’80, non c’erano attori con ascendenze proletarie nel cinema inglese”» (Piacenza). «Ci sono state crisi profonde, nella vita di allora. Un tentativo di carriera oltreoceano e un ritorno in patria. […] Il talento dell’infaticabile attore inizia ad emergere alla fine degli anni Ottanta: gira Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Peter Greenaway, Rosencrantz e Guildenstern sono morti di Tom Stoppard, in coppia con l’amico Gary Oldman, e soprattutto Vincent & Theo, firmato da Robert Altman. […] Dal punto di vista umano, tra i tanti grandi con cui ha girato, si staglia il ricordo di Robert Altman: “L’incontro più emozionante della mia vita: lui mi preparò per l’avventura americana, mi fece pensare in modo diverso ai progetti in cui volevo essere coinvolto. Mi ha dato la possibilità di incarnare Van Gogh, il grande eroe nella vita di mio padre”. Alla sua morte, Ernie Roth ha voluto essere sepolto stringendo tra le mani la foto del figlio che interpretava il suo mito. […] Roth ritenta l’avventura americana: nuovi periodi difficili, soprattutto perché rifiuta di sottoporsi a letture, audizioni, provini. La svolta che gli regalerà fama mondiale arriva, inaspettata, con le tarantiniane Iene. Lì Roth conia il formidabile Mister Orange. Il primo incontro tra l’attore punk e il regista splatter fu ad alta gradazione alcolica, come da letteratura. Racconta Roth: “Ci siamo incontrati Quentin, io e Harvey Keitel per parlare del film. Tarantino voleva che leggessi pezzi del copione, io dicevo di guardare i miei film. Lui e Harvey facevano pressione, io resistevo. Rifiuto provini e letture non per arroganza, ma perché in queste cose faccio schifo. Ci siamo trasferiti in un delikatessen e poi in un bar, Quentin ha iniziato a bere un paio di birre e io con lui: a fine serata eravamo ubriachi. Si è messo a scrivere pezzi di sceneggiatura sulla lavagnetta delle ordinazioni, e io a leggerle. Era la prima volta che lo facevo da tanto tempo, sicuramente è stata l’ultima. Ho un ricordo vago di com’è andata la serata, ma il giorno dopo ero il poliziotto infiltrato Mister Orange”» (Finos). «Quentin Tarantino […] l’ha lanciato nel 1992 nelle Iene (dove era Mr Orange) e l’ha poi voluto in Pulp Fiction (1994), Four Rooms (1995) e The Hateful Eight (2015). È stato anche il perfido generale Thade, che dà la caccia agli umani nel remake del Pianeta delle scimmie di Tim Burton (2001). […] Il cinico Archibald Cunningham di Rob Roy gli ha fruttato la candidatura all’Oscar nel 1995. Ma ha saputo anche commuovere» (Corsi). Intorno alla metà degli anni Novanta, ricevette una telefonata da Francis Ford Coppola: «Mi chiedeva di rileggere Sulla strada di Kerouac: voleva farne un film. Ci incontrammo a casa sua: “Ho una cosa da farti vedere”, disse. Era la mia lettera. Anni dopo mi ha offerto Un’altra giovinezza, pellicola filosofica che per me è diventata un viaggio esistenziale». «Si impone definitivamente nella splendida e malinconica interpretazione di T.D. Lemon detto Novecento in La leggenda del pianista sull’oceano (1998) di G. Tornatore. […] Nel 2005 è al fianco di S. Shepard e J. Lange in Don’t Come Knocking di W. Wenders, mentre negli anni successivi viene scritturato da altri autori: è il padre di famiglia vessato nel remake americano di Funny Games (2008) di M. Haneke, il professore protagonista di Un’altra giovinezza (2007) di F.F. Coppola e il perfido Emil Blonsky/Abominio in L’incredibile Hulk (2008) di L. Leterrier» (Gianni Canova). «Anche in tv non scherza: ha interpretato il ruolo cult del dottor Cal Lightman nella serie Lie to Me e partecipato a Twin Peaks 3 di David Lynch» (Ariete). Più recentemente ha recitato nella serie televisiva Tin Star, in cui «è Jim Worth, il capo della polizia di una cittadina sulle Montagne Rocciose canadesi travolta da un’ondata di criminalità dopo l’apertura di una raffineria di petrolio. A metà fra thriller psicologico e western, Tin Star ha una buona dose di violenza. Ma Roth non si scompone davanti ai fiotti di sangue» (Corsi). Tra le ultime pellicole cui ha preso parte, Chronic (2015) di Michel Franco, Sull’isola di Bergman (2021) di Mia Hansen-Løve e Sundown (2021), anch’esso di Franco, presentato in concorso alla LXXVIII Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. «Parla poco, pochissimo Tim Roth in Sundown. Dall’isolamento dorato di un resort esclusivo alla confusione vitale e minacciosa della spiaggia, giù nella parte povera di Acapulco, il suo è un movimento soprattutto interiore. […] Il film del regista messicano Michel Franco […] è la storia di Neil e Alice Bennett (Tim Roth e Charlotte Gainsbourg) e dei giovani Colin e Alexa, facoltosa famiglia britannica che si gode una vacanza di lusso finché non viene richiamata all’ordine da un problema lontano. E Neil resta solo, a stendere un filo teso di inquietudine su conflitti di classe e desideri a lungo sopiti. […] Il suo Neil quasi non dice una parola. Come è stato lavorare senza voce? “Amo l’idea che sia la macchina da presa a raccontare la storia: è molto all’antica. Il pubblico, così, può arrivare alla sua conclusione sugli elementi della storia. Non gli dici cosa sta vedendo e non copri tutto con la musica per spiegargli ciò che deve provare: semplicemente gli offri delle immagini e lo accompagni in un viaggio. È insolito e rigenerante oggi dare fiducia al pubblico in questo modo”» (Michela Greco). «Quando il funzionario del consolato britannico in Sundown chiede al suo personaggio “Perché non è tornato a casa per il funerale di sua madre?”, si pensa subito allo Straniero di Camus. Altro personaggio indecifrabile. “Michel, che è un grande regista, trattiene il giudizio, ma forse incoraggia lo spettatore a mettere in gioco il proprio. Prima ci lascia intrappolare dagli stereotipi – cosa c’è di più facile? –, poi ci obbliga a riconsiderare tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento. Ma, se l’uomo che interpreto è un mistero, direi che probabilmente abbiamo fatto un buon film”» (Piacenza). «Presto la vedremo di nuovo nel mondo Marvel, con la serie She-Hulk. Com’è stato questo ritorno? “Tutto diverso dalla prima volta, molto divertente. Avevo fatto L’incredibile Hulk per i miei figli, pensando che sarebbe stato bello per loro vedermi in un film di mostri: ora mi hanno chiesto di tornare ed è stata un’esperienza interessante, sorprendente”» (Greco) • Tre figli: Jack Ernest (1984) da una relazione con la produttrice Lori Baker, Timothy (1995) e Cormac (1996) dal matrimonio con la stilista Nikki Butler, sposata nel 1993. «Lei che tipo di papà è? “Dipende da come si comportano i miei figli. Se serve, faccio la voce grossa. Ma è mia moglie che ha il controllo di tutto. […] Sono un gran rompiscatole, così mi dicono, ma sono decisamente sdolcinato”» (Corsi). «Ho sofferto per il divorzio dei miei: mio padre mi è mancato. Ho capito quanto l’amavo quando l’ho perso. Da bambino mi metteva sulle spalle e mi portava nei cortei degli operai: mi è risalito tutto dopo. Per questo oggi sono molto aperto sui miei sentimenti: non c’è giorno in cui non ripeta ai miei figli quanto li amo» • «L’America è definitivamente casa? O è un nostalgico che legge il Guardian e guarda la Bbc? “L’America è decisamente casa. Ma i miei legami con l’Inghilterra restano forti. Però, se dovessi mai tornare, non vorrei stare nella terra della Brexit: vorrei essere europeo. In Italia o in Francia: ecco, questi sono i due posti dove vorrei stabilirmi. Vi toccherà accogliermi”. […] E che cosa spera per l’America? Politicamente ha sostenuto Bernie Sanders durante le primarie democratiche del 2020. “Ho sostenuto Bernie, ma io non voto negli Stati Uniti. Non lo so… Sono sicuro che Trump tornerà per un altro mandato nel 2024. Siamo in campagna elettorale permanente. E non è divertente per niente”» (Piacenza) • «Ho letto che fa un tatuaggio per ogni evento importante della sua vita. […] “È come tenere un diario”» (Corsi) • «Chi sono i tuoi idoli in questo mestiere? “Ian Richardson, Richard Burton, Charles Laughton, Terence Stamp”» (Festa) • «Ha dipinto la follia per Robert Altman e si è reincarnato per Francis Ford Coppola. Ha danzato per Woody Allen e suonato il piano per Giuseppe Tornatore. Si è fatto iena per Quentin Tarantino, scimmia per Tim Burton. Warner Herzog l’ha voluto invincibile, Michael Haneke l’ha impietosamente torturato. È il camaleonte del cinema di grand’autore, è Tim Roth. […] L’aura di scontroso […] ha sempre marchiato la sua immagine, ideale perfido shakesperiano. […] “Adoro i perfidi, gli antagonisti. Mi riescono bene. Non ho la fisicità del principe azzurro, e poi vengo dal teatro shakesperiano, dove i villains si ritagliano i ruoli più interessanti”» (Finos) • «L’adolescenza alla scuola infernale, la giovinezza nichilista, la lunga disoccupazione ne hanno segnato il carattere. Furono molti gli scontri con Giuseppe Tornatore, che lo volle Novecento. “Discutemmo, ma solo per motivi professionali”, spiega […] l’attore. “Era un ruolo complesso, ma da rendere in modo semplice. E non avevo mai suonato il piano in vita mia. Ero nervoso sul set e Giuseppe non parlava una parola d’inglese, ogni comunicazione era filtrata dall’interprete. Ma considero La leggenda del pianista sull’oceano un’opera d’arte, davvero. Ed è il preferito dai miei ragazzi”» (Finos) • «Il suo amico Quentin Tarantino disse di lei: “Mi piace scrivere finti ruoli ‘posh’, chic, eleganti per Tim perché percepisco il suo antagonismo di classe”. (Ride). “Quentin sa quello che provo per le classi privilegiate! Ama le contraddizioni ed è un animale davvero politico. Ci piace portare le nostre discussioni teoriche sul set e renderle vive e vibranti. Ma non è il solo: ci sono un sacco di registi politici ancora al lavoro. Ken Loach è sempre lì. Per fortuna. Kes è uno dei miei film preferiti di sempre. Ah, accidenti, non sono mai riuscito a fare un film con lui. Come vorrei! Lo adoro! […] Ken rappresenta una delle ragioni per cui io e lei siamo qui adesso. Perché ci ha mostrato che tutto era possibile”» (Piacenza) • «Fa spesso ruoli e film crudi. È una scelta? “Non seguo regole. Se una sceneggiatura mi sembra divertente, dico sì”. […] La violenza non la disturba? “Non me ne preoccupo: l’importante è che ci sia per una ragione. Prenda Le iene: ogni scena è il risultato delle azioni dei personaggi o serve a definirli. Funny Games, invece, è una riflessione sul cinema”. È un film molto difficile da vedere. “Terribile. All’inizio lo rifiutai. Poi Michael (Haneke, ndr) mi chiese di guardare l’originale e capii. È un saggio su come i media si sono infiltrati nella società e su come siamo diventati quasi immuni alla violenza che ci circonda”» (Corsi) • «Riesce a tenere insieme cose molto diverse: la tv con le serie di successo (Lie to Me, Tin Star), progetti che ama e altri che immaginiamo siano puramente alimentari (solo per fare un esempio, nel 2014 è stato il principe Ranieri in Grace di Monaco). Ci riesce facilmente? “Oh sì, ed è perché ho delle responsabilità. All’inizio ero certamente più ribelle. Ma c’ero solo io, non avevo un famiglia. […] Ora devo prendermi cura di altre persone. E poi qualche volta i progetti alimentari si rivelano fantastici! Altre volte faccio cose che mi portano dove non vorrei essere, ma chi non lo fa?”» (Piacenza). «Ho fatto anche film di merda. Per come la vedo io, il mio lavoro consiste nel rimandare costantemente la disoccupazione. Ecco perché a volte faccio film veramente brutti. Devo farli. […] La cosa più bella di quei progetti accade nel momento in cui sto per uscire di casa. Mia moglie mi guarda sull’uscio e mi dice: “Sai quand’è che ti amo di più? In questo momento in cui ti vedo uscire di casa pronto a fare una cosa che non ti piace e che durerà almeno tre mesi”». «Ci sono lavori che fai per te stesso e ci sono lavori che fai per soldi. Quelli che fai per te stesso e per le tue esigenze creative in genere sono quelli che non pagano. Quindi devi bilanciare le cose» • «È vero che non vede mai i film che gira? “Proprio così. Preferisco lasciare il compito al pubblico”» (Gloria Satta) • «Il lavoro da attore è ancora assolutamente affascinante e pazzesco, il viaggio più incredibile» • «Tutto quello che ho fatto, nella mia vita, è stato “incidental”, casuale. È tutto successo per caso. Poi ci è voluta tanta determinazione, però» (a Giovanni Bogani) • «Ha ancora paura di restare disoccupato? “Certo che ce l’ho. Mia moglie, che odiava il suo lavoro, ha scelto di occuparsi dei nostri figli. […] Sono stato fortunato perché avevo lavorato molto prima del lockdown e avevo messo da parte i soldi in banca per sopravvivere. Adesso ho fin troppi progetti”. Anche da regista? “Ho una serie tv che vorrei dirigere e un lavoro su Shakespeare adattato per me da Harold Pinter. Mi dicevano che invecchiando si ha meno lavoro: per me è il contrario”» (Finos) • «Insisto nel non avere un piano nella vita: finché posso, voglio restare sempre aperto. Finora ha funzionato».