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 2022  marzo 23 Mercoledì calendario

Biografia di Mario Capecchi raccontata da lui stesso (e da Roberto Faenza in "Hill of vision")

Oddio! Non sarà noioso vivere fino a centoquaranta anni? Ride: «No, purché a quell’età uno sia felice, produttivo e innamorato». Questo è il nodo, spiega Mario Capecchi, Nobel per la medicina 2007: «Dipende da come ci si arriverà. Certo, ci vorrà del tempo. Ma teoricamente... Sotto la calotta artica è stato trovato uno squalo e si è calcolato che avesse oltre 500 anni. Se un animale può farlo, perché l’essere umano no?».


Lui, del resto, a 85 anni di vite ne ha già vissute due. Questa di oggi, in cui è uno degli studiosi più celebri al mondo nel campo delle ricerche sul Dna e sull’ansia. E quella di ieri, in cui fu un bambino travolto dalla Seconda guerra mondiale, rimasto senza padre e madre e incredibilmente sopravvissuto vagabondando tutto solo per le valli atesine e la piana padana recuperando volta per volta un po’ di cibo, qualche vestito, un rifugio per le notti più fredde. Fino a guadagnarsi, molti anni e molti trionfi dopo, il titolo di «Oliver Twist della Genetica».


Una storia stupefacente. Raccontata dal regista Roberto Faenza in un film, Hill of vision, con Laura Haddock, Edward Holcroft, Elisa Lasowski, Jake Donald-Crookes e basato sui ricordi che lo stesso scienziato, che sarà presente sabato 26 marzo per la prima a Bari, riconosce come qua e là incerti. Non è facile, se sei cresciuto «allo sbando, solo per sopravvivere, come un animale», tenere a mente date, luoghi, dettagli: «Mia madre era la persona più gentile e premurosa che abbia mai incontrato. E dubito che mai mi avrebbe trasmesso consapevolmente false informazioni — spiegò tempo fa a Isabelle Hansen del “Dolomiten” — tuttavia come scienziato sono consapevole che tutte le fonti citate potrebbero non essere perfette».


Certo è che il piccolo Mario, nato a Verona nell’ottobre del ’37, fu il frutto d’una relazione tempestosa tra due persone che più diverse non avrebbero potuto essere. Lui, Luciano Capecchi, era un aviatore e mitragliere fascista, spirito battagliero, modi bruschi e bellicosi, cresciuto a Reggio Emilia. Lei, Lucy Ramberg, figlia di Lucy Dodd-Ramberg, ricca e celebre pittrice di Portland e di un archeologo tedesco, cresciuta coi due fratelli in una villa di Firenze, era colta, intelligente, parlava «una mezza dozzina di lingue», aveva studiato alla Sorbona ed era di idee liberali, semmai un po’ bohemienne e antifasciste: «Il loro fu amore a prima vista — dirà il figlio — ma per fortuna mia madre decise di non sposarlo».


Come siano andate le cose non si sa ma a un certo punto Lucy, forse in fuga dal compagno fascista, andò a vivere col figlioletto in una contrada fuori mano sull’altopiano del Renon, sopra Bolzano. Dove, temendo di essere accusata di avere rapporti con gli antifascisti, decise un giorno di cambiare aria, raccogliendo tutto il denaro e le cose di valore che possedeva per affidare il bambino a una famiglia tirolese della quale pensava di potersi fidare. Dopodiché, scovata dalla polizia italiana o tedesca, sarebbe finita in un campo di prigionia «dalle parti di Monaco». Dachau, come aveva sempre capito Mario? Dai controlli successivi pare di no. Quindi? Mistero. Come misteriosa sarebbe rimasta la nascita di una seconda figlia, Marlene, scoperta dallo scienziato quindici anni fa.


Fatto sta che dopo un anno o poco più il bambino, quando non ha ancora cinque anni, scompare dal Renon. Buttato fuori dalla famiglia tedesca che lo ospitava e temeva grane con la polizia? Mah... Difficile, a quell’età, capire bene certe cose troppo grandi per un bimbo. Tornato lassù dopo aver vinto il Nobel e ritrovati i luoghi in cui aveva passato quel periodo «clandestino», lo stesso Capecchi dice di non provare «alcun rancore. Non so cosa sia successo davvero. Credo che la causa fosse economica. Avevano poco e dovevano prendersi cura di sé stessi. Forse i soldi che aveva lasciato mia madre erano finiti, forse mio padre li aveva intimiditi, non so...». Forse fu lui a sentirsi di peso e a scappare. O il papà a portarselo via («io non ne ho memoria») a Reggio. Buio.


Ciò che è certo è che la convivenza tra Luciano Capecchi (destinato a morire in una battaglia aerea in Africa) e il figlio, come ricostruisce il film di Faenza, fu molto complicata. Al punto che Mario racconterà, in uno «schizzo autobiografico» scritto in occasione del Nobel, d’aver vissuto nella casa paterna reggiana, complessivamente, non più di tre settimane: «Mi è stato chiesto perché non ho vissuto con lui per un periodo molto più lungo. Era estremamente violento. In mezzo a tutti gli orrori della guerra, forse la cosa più difficile per me da accettare, da piccolo, era avere un padre brutale con me». Meglio la strada, piuttosto: «Ho dovuto imparare come sopravvivere. Come proteggere me stesso. Come procurarmi da mangiare. Quello che mangiavo lo rubavo. Ero diventato un bravissimo ladro. Osservavo le persone. E queste osservazioni mi servivano per procurarmi il cibo. Questa è stata la mia scuola: ho imparato a essere autosufficiente».


Il Pio istituto degli artigianelli, l’amatissimo orfanotrofio di Reggio, fu per lui un’ancora di salvezza. Lo dirigeva don Gaetano Incerti, un prete monumentale descritto dal Premio Nobel come «uno dei pochissimi uomini che ho incontrato a Reggio che ha mostrato compassione per i bambini e si è interessato a me». Ricorda Dino Salati: «Mario era mio compagno di banco. Era biondino. Avevamo sempre fame. Andavamo a pregare ogni giorno perché ci fosse da mangiare anche il giorno dopo. Sempre fame, tanta fame...».


Finché, finalmente, un giorno apparve Lucy: «Era sopravvissuta alla prigionia e mi trovò il 6 ottobre del ’36: il giorno del mio nono compleanno. Non la riconobbi. In pochi anni era invecchiata una vita. Mi portò a comprare un completo alla tirolese, col cappello e la piuma». Qualche settimana e, preso un biglietto per la nave, partirono per l’America: «Mi aspettavo di trovare strade lastricate d’oro: ho trovato di più, opportunità».


Finì a casa del fratello della mamma, lo zio Edward, un fisico, in una comunità quacchera in Pennsylvania: «Passai di colpo dal non avere genitori ad averne sessantacinque». L’infanzia così difficile e traumatica, però, se l’era trascinata dietro. Troppo selvatico, troppo sensibile, troppo turbolento. Tanto da farsi buttar fuori dalle scuole. «Finché la spuntarono mio zio Edward e mia zia Sarah, che avevano accettato la sfida di convertirmi in un essere umano produttivo».


Una volta partito non si fermò più. Pochi mesi per imparare a leggere e scrivere in inglese, una manciata di anni per la laurea, una corsa a perdifiato per il dottorato. E poi via, di laboratorio in laboratorio, di università in università: «Ogni tre mesi facevamo le valigie e partivamo per una nuova città e una nuova esperienza di lavoro». Fino ad arrivare al Nobel per gli studi sul Dna. La prova definitiva di come accumulare più esperienze possibili possa essere straordinariamente utile. Anche quelle controcorrente. Come quando lasciò i centri più prestigiosi d’America per trasferirsi a Salt Lake City, nello Utah, facendosi convincere da un collega dopo un giro «lungo una serie di laghi di montagna che scoppiavano di trote». Considerato oggi forse il massimo esperto mondiale di ansia («Non abbiamo ancora dati ma dopo avere visto i picchi raggiunti con la pandemia, sono certo che la guerra in Ucraina porterà problemi serissimi») dice di avere un solo grande rimpianto: non essere mai riuscito a parlare su tante cose con la madre Lucy, creatura meravigliosa, fragile, assente. Nella sua casa sulle Rocky Mountains ha un baule con le sue cose. Confida agli amici di non essere mai riuscito ad aprirlo.


Il regista: Ostinazione e passione, così è nato il progetto

«Sono quindici anni che lavoriamo a questo film, ovvero dal 2007, da quando io e Elda Ferri abbiamo appreso della vita di Mario Capecchi, premio Nobel per la Medicina. Sua madre Lucy, americana, viene arrestata dai nazifascisti e deportata a Dachau, e Mario all’età di 4 anni viene abbandonato tra le montagne di Bolzano. Come può un bambino così piccolo sopravvivere vivendo alla giornata...». Queste parole scritte dal regista Roberto Faenza spiegano meglio di qualsiasi altra cosa perché dietro Hill of Vision ci sia soprattutto l’ostinata passione di chi si è innamorato di questa storia meravigliosa. Il film, prodotto da Jean Vigo Italia con Rai Cinema, vede la partecipazione di attori del calibro di Laura Haddock, Edward Holcroft, Elisa Lasowski. E ancora: Jake Donald-Crookes (nel ruolo di Mario Capecchi ragazzo), Lorenzo Ciamei (Mario bambino) e Francesco Montanari che interpreta il padre di Mario, Luciano Capecchi. Hill of Vision è il nome della comunità quacchera che accolse Mario e la madre in America.