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 2022  aprile 30 Sabato calendario

Intervista a Jostein Gaarder - "Noi che siamo qui adesso" (Longanesi)

Jostein Gaarder è un’originale figura di intellettuale: norvegese, nato nel 1952, studi complessi (filosofia e teologia), è diventato famoso in tutto il pianeta con Il mondo di Sofia, un romanzo uscito ormai trent’anni fa. Un successo da oltre venti milioni di copie che parlava soprattutto ai ragazzi, con “pillole” di filosofia in controluce nelle domande che la protagonista faceva a sé stessa e agli altri. Sempre in bilico tra una saggezza di antico stampo e una devota attenzione ai più giovani, Gaarder è tornato con un nuovo libro — anche questo tradotto in Italia da Longanesi, stavolta con la firma di Alessandro Storti — dal titolo Noi che siamo qui adesso.


Non è un libro superficiale ma ha una sua gradevolezza formale e sostanziale: rivolgendosi ai nipoti, Gaarder prova a immaginare come sarà la vita sul nostro pianeta alla fine di questo secolo. Il clima, il rapporti tra gli esseri umani, la violenza, la pace, la biologia, la tecnologia. Un esercizio di immaginazione che non risparmia le domande sull’ecosistema. Ne parliamo con lui da remoto, in video, in un giorno di primavera.


Di certo, solo due o tre anni fa, nessuno avrebbe immaginato una guerra come quella in corso.
«È vero. Sono preoccupato e addolorato per le notizie che arrivano dall’Ucraina. Ho dei nipoti, penso che costruire un futuro abitabile sia un obbligo per noi».


È questo il punto, o uno dei punti importanti, del suo libro. La responsabilità morale. Davvero abbiamo un obbligo etico nel lasciare un mondo dignitoso a chi verrà dopo di noi?
«Secondo me è nostro dovere, in quanto specie umana, assicurare un futuro ai nostri discendenti e alla nostra civiltà. Ma non solo. Siamo eticamente tenuti a proteggere le condizioni che permettono la vita, non solo la nostra, ma anche quella di altre specie. Siamo noi, in questo preciso momento, a erodere la biodiversità di questo pianeta. Siamo noi che stiamo qui, adesso, ecco spiegato il titolo».


Certi cambiamenti non sono mai gratis. Il prezzo da pagare è fronteggiare i partigiani del profitto.
«La domanda filosofica è questa: le persone che non sono qui adesso ma che saranno qui un domani, sono al pari del nostro prossimo, hanno gli stessi diritti dei nostri coinquilini? La risposta per me è sì, perché la specie umana non abita la Terra nello stesso periodo temporale. Ma se diamo questo per assodato vuol dire che le generazioni future hanno tutto il diritto di pretendere da noi qualcosa, anche con i toni alti, anche con la protesta, anche con gli scioperi della fame e Greta Thunberg qualcosa ci ha insegnato».


Una questione di diritti e doveri, insomma?
«Non abbiamo il diritto di riconsegnare un pianeta con un valore minore rispetto a quando l’abbiamo avuto in dotazione, con meno pesci, meno acqua potabile, meno cibo, meno vegetazione pluviale, meno specie vegetali e animali. Una delle cose più importanti da capire nel XXI secolo sarà quanto a lungo possiamo arrogarci una caterva di diritti senza al contempo accettare alcuni doveri fondamentali».


Però questo è anche il tempo delle grandi scoperte ormai quasi quotidiane, l’epoca in cui abbiamo trovato un vaccino efficace contro una pandemia in pochi mesi.
«L’epoca in cui viviamo è eccezionale sotto ogni punto di vista. Da un lato apparteniamo a una generazione trionfante, che può esplorare l’universo, vantare successi tecnologici, mappare il genoma umano. Dall’altro, siamo la prima generazione a devastare seriamente l’ambiente».


Nel suo libro lei auspica una sorta di rivoluzione copernicana. Ce la spiega?
«Esattamente così. Se vogliamo riuscire a conservare i presupposti della vita su questo pianeta, serve questo, un ribaltamento nel nostro modo di pensare. Così come era assurdo e ingenuo credere che tutti i corpi celesti orbitassero intorno al nostro globo, è ingenuo vivere come se ogni cosa ruotasse intorno al tempo in cui viviamo noi».


Lei è norvegese, proviene da un Paese ricco di petrolio. Ma nei suoi scritti — compreso questo libro appena uscito — è molto critico nei riguardi di un’economia che si fonda sull’oro nero.
«Lo sono, sì. Oggi l’economia basata sulla schiavitù è stata sostituita da una nuova forma di sfruttamento: l’economia del petrolio. La differenza è che gli schiavi dell’economia del petrolio non sono ancora nati, cioè parlo di tutte le persone che dovranno rompersi le ossa per pagare i conti dei nostri sprechi. Stiamo cambiando l’ambiente circostante a tal punto che i ricercatori guardano al nostro tempo come a un’era geologica completamente nuova».


Eppure la questione ambientale non sempre viene posta sul piano filosofico, si preferisce quello sociologico o scientifico.
«Le questioni etiche non devono per forza essere difficili da affrontare. Spesso la risposta è piena di errori, ma abbiamo la capacità di accettarne le conseguenze. Se però dimentichiamo di tenere conto dei posteri, loro non dimenticheranno noi. Facciamo un paragone: la maturità — come esseri umani—che ci ha condotto fin qui ha fatto sì che accettassimo una serie di impegni con gli altri abitanti del pianeta. Pensiamo alle relazioni internazionali, all’Onu, alle norme che regolano i conflitti e la pace. Adesso si tratta di fare un passo avanti e pensarci responsabili per chi deve ancora venire, per chi non è qui adesso».


Qualcuno potrebbe obiettare che con le generazioni future non esiste alcun patto sociale...
«Ma c’è la biologia! Siamo plasmati dal nostro retroterra storico, dalla civiltà che ci ha allevati. Amministriamo un’eredità culturale, diciamo. Ma siamo plasmati anche dalla storia biologica di questo pianeta. Amministriamo un’eredità genetica. Primati, vertebrati. In tutto l’universo, l’uomo è forse l’unico essere vivente ad avere una coscienza universale, ossia una percezione dello sconfinato e misterioso. La responsabilità di preservare la vita su questo pianeta dunque non è soltanto globale, ma cosmica».


Le piace l’impegno di Greta Thunberg?
«Molto, se fossi suo nonno ne sarei fiero. La accusano di naiveté, ma che cosa c’è di naïf nel denunciare una semplice verità, cioè che sul nostro futuro grava una cupa minaccia che va allontanata al più presto? E poi questa è una forma di lotta, non bisogna vergognarsi di questa parola. Anche la pace, a volte, richiede la lotta. Anche la speranza. Ci vorrebbe “uno Zelensky del clima”, direi. Ammiro moltissimo la sua resistenza che non conosce confini, nemmeno comunicativi. Si batte come un leone, va a parlare in tutti i consessi possibili, si fa ospitare dai Paesi del mondo. Così si fa. Certo, anche qui ci sarebbe una questione morale che deve riguardare soprattutto chi aggredisce: fino a dove ci si può spingere in termini di sacrifici umani per ottenere un obiettivo? Risponderà la coscienza di ognuno».


Combattere per la speranza. È questo uno degli insegnamenti che vorrebbe trasmettere ai suoi nipoti?
«Io mi rivolgo ai miei nipoti nel libro, ma è chiaro che mi riferisco a tutte le generazioni più giovani, quelle a cui andrà il conto delle nostre intemperanze. In ogni caso, sì, la speranza è qualcosa per cui bisogna battersi. Laddove ce n’è ancora. Perché in alcuni casi è finita. Un esempio che faccio nel libro: nel 2019 l’Ipbes, la piattaforma intergovernativa dell’Onu sulla biodiversità, ha presentato il suo primo rapporto globale sulle condizioni della Terra e le conclusioni sono allarmanti. Gli ecosistemi terrestri stanno scomparendo a ritmo serrato, un intero milione di specie vegetali e animali è a rischio di estinzione. Per mezzo milione di queste ultime, gli habitat sono talmente limitati che le specie più vulnerabili sono definite morte viventi. Queste non hanno più nemmeno la facoltà di lotta».


La lotta, però, ha bisogno di un retroterra culturale maturo, poco incline alla superstizione. Come si fa a lottare per l’ambiente in un tempo – il nostro – in cui c’è chi non crede al Covid-19 o ai morti per le strade delle città ucraine?
«Sono, in fondo, gli stessi che non credono all’emergenza climatica. Nel libro io paragono queste persone ad una forma di caos che sta alla base della maggior parte delle mitologie di tutti i tempi. Sono forze che mirano al disordine, più che all’ordine, che lavorano per scardinare l’armonia. Però, come dicevamo prima, questo è un tempo eccezionale anche per altri aspetti. Possiamo informarci con maggiore facilità. Possiamo fare domande agli esperti e ottenere risposte in breve tempo. Possiamo consultare le fonti dirette, avere sulla scrivania in pochissimo tempo un documento che chiarisca i dubbi. Ma la cosa importante, la cosa che non bisogna mai smettere di fare è quella di interrogarsi».


Farsi domande, fino a stancarsi?
«Lo raccomando ai più giovani, ma prima di tutto anche agli adulti. Penso che sia utile, ogni tanto, mettersi davanti a uno specchio e chiedersi se davvero stiamo facendo tutto il possibile, se siamo buoni, se rispettiamo le norme, se abbiamo a cuore il pianeta. Non so quanti riuscirebbero a superare questo esame con loro stessi, io per primo».


In conclusione, queste sue riflessioni sul futuro hanno inciso sulla sua fede?
«Penso che esista un fortissimo legame tra tutti gli esseri viventi, simile a un’onda che ci lega allo stesso destino. Non credo in entità sovrannaturali, penso che quello che diventeremo sia legato al nostro senso di responsabilità e alle posizioni etiche. Certo, poi amo la mitologia nordica, ma quella è un’altra storia!».