Corriere della Sera, 19 maggio 2022
La nuova Adelphi di Colajanni. Intervista
Quando Roberto Calasso, nel 1971, divenne direttore editoriale di Adelphi, aveva trent’anni e vantava un’esperienza quasi decennale a fianco di Bobi Bazlen e di Luciano Foà. Roberto Colajanni – figlio di Vanna Calasso, islamista, e dell’antropologo Antonino Colajanni —, il suo successore come direttore editoriale e amministratore delegato, ha 36 anni ed è entrato in via San Giovanni sul Muro nel 2011. Da allora sono stati lunghi anni di apprendistato accanto a uno degli editori più geniali: consulenze editoriali, lavoro sulle traduzioni, editing, responsabilità della collana gli Adelphi. Ora Colajanni è seduto nella stanza di Calasso, dove quasi tutto è rimasto com’era, la libreria alle sue spalle, i volumi che furono di Bazlen, l’ampia scrivania, in un angolo alcuni strani oggetti: una locandina in miniatura con Rita Hayworth nei panni di Gilda, un’amigdala, un melograno, una nuvoletta in legno appartenuta a un fregio di un tempio di Kyoto, un piccolo Krishna, una bottiglietta con dentro della sabbia messicana, una gomma da cancellare con il volto di Goethe, e a fianco, su un tavolino, una fotografia con Thomas Mann e Sándor Márai nell’atto un po’ rigido e solenne di stringersi la mano. Tutto sembrerebbe suggerire memoria e devozione, se non ci fosse Roberto Colajanni, con il suo sorriso lieve.
«Le mie passioni da ragazzo – dice – erano il cinema e la musica: il pianoforte soprattutto è stato per un lungo periodo la cosa della mia vita. La lettura invece era una passione irregolare finché, quando morì mia nonna Melisenda, la madre di Calasso, due librerie della sua casa vennero trasferite nella mia stanza: contenevano quasi tutti i titoli della Biblioteca Adelphi. Cominciai a sfogliare quei libri come un barbaro, in modo istintivo, senza seguire alcun criterio. Mi piacevano i titoli, le copertine, la voce sicura che parlava nei risvolti. Ogni libro era un pianeta autosufficiente, e solo molto dopo ho potuto constatare quella misteriosa affinità che secondo Calasso lega alcuni autori apparentemente così distanti di quella collana. È stata questa la mia iniziazione alla letteratura e alla casa editrice, dettata dal caso e vissuta in segreto, quasi a mia insaputa».
Che rapporto ha avuto da ragazzo con suo zio?
«Un bellissimo rapporto fin da piccolo. Passavamo insieme il Natale e a volte l’estate al Circeo, sul lungomare di Sabaudia, con Fleur Jaeggy e la mia famiglia. Ma è stato il cinema, prima dei libri, ad avvicinarci davvero. A pensarci il cinema è una sorta di “mania ereditaria”, che parte da Gian Pietro – regista e sceneggiatore —, fratello maggiore di Roberto, e ha finito per contagiare anche suo figlio Tancredi. Con Calasso avevamo la stessa fissazione per alcuni registi, a cominciare da Alfred Hitchcock e Max Ophüls. Lui però era più frivolo, mentre io all’epoca ero un kubrickiano ortodosso, e spesso mi prendeva un po’ in giro su questo (una volta ebbe il coraggio di definire Stanley Kubrick “volenteroso” – forse la cosa più perfida che gli abbia sentito dire – e non gli rivolsi la parola per vari mesi). Quando veniva a Roma andavamo sempre al cinema. Ricordo la volta in cui mi portò a vedere Pulp Fiction. Il film era vietato ai minori di diciotto anni, se non sbaglio, e io dovevo averne suppergiù dodici. Non ho idea di come sia riuscito a farmi entrare, ma quando uscii ero in uno stato di sovreccitazione e lui sembrava molto divertito».
Come è avvenuto l’ingresso in casa editrice?
«Dopo essermi laureato, andai per un periodo a Los Angeles, per continuare gli studi e tentare di “fare il cinema” (come si usa dire a Roma). Un giorno Calasso mi chiamò e mi disse [sorride]: “Smettila di galleggiare a Fregene”, intendeva Santa Monica… In effetti tra i due luoghi una certa affinità c’era [ride]… Voleva dire che in realtà stavo lì a non far niente, ed era vero, anche se mi piaceva parecchio. Insomma, mi chiese se avevo voglia di fare qualcosa in casa editrice, senza offrirmi nulla di preciso e partendo da zero. La telefonata fu molto convincente».
Quale fu il suo primo incarico?
«Nessuno. Fui messo in uno stanzino lungo e stretto, a rivedere bozze e scrivere qualche sporadico parere editoriale. Avevo un’idea molto romantica della casa editrice, un po’ comica a ripensarci, e lo scontro con il cosiddetto “lavoro” fu piuttosto traumatico. Poi, da un giorno all’altro, mi venne chiesto di partecipare a qualcosa di insperato, un progetto quasi impossibile, che Calasso voleva per il cinquantenario di Adelphi e che diventò Adelphiana. Un libro che doveva raccogliere scritti, per lo più inediti, di autori della casa editrice o altri a loro affini, immagini, interviste, corrispondenze e materiali di ogni genere. In sostanza dovevo cercare in ogni direzione, possibilmente senza tregua. E ogni sera, intorno alle sette, Calasso mi chiamava e mi chiedeva cosa avevo trovato. Fu un periodo durissimo, ma quella vigilanza si rivelò molto utile».
Che idea si era fatta di Bazlen e Foà prima di entrare in casa editrice?
«Bazlen e Foà li ho conosciuti soprattutto attraverso i racconti di Calasso, e quello che ha scritto di loro. A volte penso che lui fosse una specie di strana fusione – in termini psichici – tra quelle due personalità così diverse. Da una parte Bazlen, la sua mercurialità, una rapidità mentale e una curiosità irrefrenabile, la capacità di saltare da una cosa all’altra, anche se distanti anni luce fra loro. Dall’altra la sapienza “pacata” di Foà, l’assoluta serietà nel rivedere i testi, la dedizione al lavoro editoriale fin nei suoi elementi minimi. “Come uno scriba egizio, accovacciato con la sua tavoletta tra le gambe, lo sguardo fermo davanti a sé”. Questo lato era meno visibile in Calasso, ma altrettanto presente. Era una persona di una metodicità mostruosa, tutto per lui era scandito da un ritmo severo, con un senso altissimo dell’ordine».
Che tipo di «maestro» era Calasso?
«Un maestro involontario, come Bazlen, ma di un genere completamente diverso. Quello che si imparava standogli accanto, lo si imparava quasi suo malgrado. Ricordo ancora un passo della Rovina di Kasch che mi colpì molto: “L’educazione ha questo di paradossale, che è fatta soprattutto di cose che non si possono imparare”. Bisognava saperle già, per così dire, anche se al momento non se ne aveva l’impressione. A ognuno di noi Calasso parlava in modo diverso. Le sue reazioni erano a volte imprevedibili e virulente, ma non miravano mai soltanto a demolire chi ai suoi occhi aveva commesso un errore imperdonabile. Non perdeva tempo a spiegare perché una certa cosa non andava fatta, o andava fatta in un altro modo. Se rivolgeva una critica, per quanto feroce, è perché sapeva che dall’altra parte c’erano le condizioni per capirla. Frasi mitiche, come “mancano i rudimenti” o “le basi stesse”, sono aleggiate periodicamente nei corridoi della casa editrice, e ancora oggi le ricordiamo con un misto di affetto e ilarità. Ma se dovesse chiedermi quali fossero quei “rudimenti”, quelle “basi stesse”, farei fatica a rispondere. Forse erano tutto, letteralmente ogni aspetto che lui riteneva essenziale per fare questo mestiere».
Ma se dovesse dire qual era quello più importante?
«Sicuramente “il giudizio”. La capacità di “reagire” a qualcosa, per esempio a un libro. E spesso i tempi di reazione dovevano essere fulminei. In un piccolo mondo confuso e frenetico come il nostro, dove gli argomenti per pubblicare dovrebbero essere quello che conta, per lui erano quasi secondari, li dava per scontati. Sapeva che gli argomenti, come le opinioni, si possono trovare, o fabbricare a posteriori. Ma la capacità di giudicare no, quella non si può inventare. O c’è o non c’è. E spesso la si vede proprio quando si tratta di rifiutare un libro».
Che cosa intende?
«La difficoltà maggiore è dire no a libri magari interessanti, ma che non si sentono giusti per Adelphi. Quando si capisce che c’è qualcosa che stona. E la caratteristica vera di un editore è cogliere quella stonatura».
Come ha vissuto in questi mesi la responsabilità di guidare, sia pure in collaborazione con Teresa Cremisi e con un gruppo collaudato, una casa editrice così inconfondibilmente personale?
«Cercando di non pensarci e di agire come se non ci fossero state cesure. La percezione della mancanza di Calasso è pervasiva e sarebbe vano tentare di eluderla. Ogni cosa, entrando in casa editrice, ricorda la sua presenza. Ogni stanza, ogni corridoio ha una storia da raccontare, qualcosa che lo riguarda. Quanto a me, il ventaglio delle cose da fare – il cosiddetto “tormento dell’editore” – si è ampliato enormemente. Ma il modo di affrontarle è rimasto lo stesso, quello che ha trasmesso ai pochi e stretti collaboratori che aveva scelto, persone che ho la fortuna di avere accanto o di sentire al telefono ogni giorno, con cui ci capiamo al volo. Teresa Cremisi invece l’ho conosciuta solo più tardi, ma la sua esperienza e acutezza oggi mi sono altrettanto indispensabili».
Come si combina l’inevitabile peso di un’eredità culturale così forte con il senso altrettanto inevitabile, credo, della sfida e del divertimento?
«Sarei tentato di risponderle che non lo avverto come un peso, e che certamente la sfida e il divertimento prevalgono. Anche perché in un certo senso sono fortunato: pretendere di replicare quello che Calasso ha fatto non sarebbe soltanto ridicolo, ma semplicemente impossibile. È una certezza che conforta, e a pensarci bene dà uno strano senso di euforia».
C’è stato un passaggio di consegne, se così si può dire?
«Un vero e proprio passaggio di consegne sarebbe stato contrario al suo essere. Calasso ha continuato a lavorare fino all’ultimo, rispondendo alle richieste numerose di editori e agenti o rivedendo amorosamente i suoi libri, preparandoli per la stampa in ogni dettaglio. Nell’ultimo anno quasi ogni sera, prima di cena, andavo a trovarlo per raccontargli “che cosa succedeva in casa editrice”. Faceva sempre domande precise, spesso piene di tranelli. Una piccola ordalia della durata di qualche minuto. Se le mie risposte lo convincevano si scioglieva improvvisamente e diventava la persona più adorabile del mondo. Se qualcosa non gli tornava invece si incupiva e mi salutava sbrigativamente. Da qualche tempo, a causa della pandemia, dirigeva tutto dal gigantesco tavolo del suo studio in via Maddalena, che considerava “una buona approssimazione del paradiso” – e non era difficile credergli. Se ne stava lì seduto per ore a scrivere o a leggere in silenzio. L’intensità che trasmetteva nell’atto di leggere, le rare volte in cui ho avuto modo di osservarlo, è uno dei ricordi più impressionanti che mi restano di lui».
E i nuovi progetti?
«Continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto: pubblicare i libri che ci piacciono, nel modo che ci è più congeniale. Il mestiere dell’editore è sempre stato, per sua natura, invisibile (quando diventa troppo visibile, significa che c’è qualcosa che non va). I libri e gli autori che pubblica, il modo in cui vengono pubblicati (le copertine, la cura delle traduzioni, i risvolti) dovrebbero parlare per lui, e sono gli unici resti tangibili delle sue scelte. Nel caso di Adelphi, queste scelte partivano e partiranno sempre, almeno sulla carta, da due presupposti: che l’editore provi piacere a leggere i libri che pubblica, e che quei libri contengano qualcosa di unico e irripetibile, che non si troverebbe altrove. Ecco, i libri e i lettori cambiano, naturalmente, e l’incertezza aumenta, in ogni direzione. Ma c’è qualcosa che resta: lo stile. “Lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa” diceva René Daumal. E noi continueremo a restare fedeli a “ciò che siamo”».
Mentre la riproposta dei classici del Novecento ha avuto risultati talmente straordinari da farli sembrare spesso delle novità assolute, c’è stata sempre una ritrosia rispetto ai nuovi narratori italiani…
«Se c’è stata una resistenza, non fu mai per partito preso. Giorgio Manganelli, Alberto Savinio, Guido Ceronetti, Alberto Arbasino, Sergio Solmi, Ennio Flaiano, Guido Morselli, Carlo Emilio Gadda, Anna Maria Ortese hanno finito per disegnare una sorta di storia della letteratura italiana parallela, a cui siamo affezionati e da cui è difficile allontanarsi. Ma questo non ci ha impedito, negli anni, di tentare strade meno battute, come nel caso di Paolo Maurensig, Salvatore Niffoi o Rosa Matteucci, e più recentemente di Fabio Bacà, uno scrittore giovane molto singolare che ha esordito con Adelphi e oggi è in corsa per il Premio Strega. Quanto alle cosiddette “riproposte”, continuiamo a prediligere un’altra definizione. Calasso diceva che quei libri “tornavano a casa”, era il modo in cui apparivano da Adelphi a renderli nuovi. Negli ultimi mesi mi disse una cosa che mi colpì profondamente: ciò che meno gli sarebbe piaciuto era che Adelphi diventasse una specie di museo, un nobile patrimonio da conservare e a cui guardare con rispetto. La casa editrice per lui doveva restare viva e lo stesso vale per me. Anche per questo, come sempre, la cosa che oggi ci appassiona di più è cercare nuovi libri. Non importa se non sono ancora stati scritti o sono di 2 mila anni fa. Quello che conta è trovarli, lasciandosi guidare da una parola greca che Calasso amava molto: poikilía – la varietà senza limiti, se non quello del gusto».