Corriere della Sera, 19 maggio 2022
Le correzioni di Giovanni Falcone
La prudenza, il rigore, l’attenzione al minimo dettaglio erano le caratteristiche del lavoro giudiziario di Giovanni Falcone. Divenute proverbiali. «Una volta mandò un ispettore di polizia a San Paolo del Brasile per controllare che in una certa piazza ci fossero tre panchine di legno; solo perché il pentito Tommaso Buscetta ne aveva parlato e lui voleva riscontrare anche quel particolare», ricorda Marcelle Padovani, la giornalista francese che con Falcone scrisse Cose di Cosa Nostra, il libro-testamento del magistrato pubblicato nell’autunno del 1991. Sei mesi prima della strage di Capaci.
Trent’anni dopo la bomba, dalle carte conservate da Padovani nella sua casa romana, riemerge un documento che fornisce la prova grafica – scientifica, si direbbe in un tribunale – della prudenza, del rigore e dell’attenzione al minimo dettaglio con cui Falcone affrontò pure la stesura di quel libro. Le correzioni autografe del dattiloscritto composto dalla giornalista, vergate a mano dal giudice con la stessa calligrafia rotonda e chiara con cui compilò i primi verbali di Buscetta, dimostrano come volesse evitare enfatizzazioni e semplificazioni. Che forse avrebbero aiutato il grande pubblico nella comprensione del testo, ma non l’esatta descrizione della mafia, della sua cultura, della sua struttura e dei suoi metodi.
Lo racconta la stessa Padovani, che ha riaperto quel manoscritto assieme a Luca Lancise e Alessandra Coppola per la realizzazione del podcast Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone (da oggi su tutte le principali piattaforme podcast). La giornalista rilegge con emozione le correzioni del giudice, sottolineando come misurasse ogni parola. Scritta in francese, lingua che Falcone sapeva leggere ma non scrivere, e modificata in italiano.
Un esempio. A proposito dei poliziotti e magistrati assassinati dalla mafia, lei aveva scritto che «alcuni avevano commesso errori, sottovalutazioni, approssimazioni, analisi superficiali. Non si scherza con Cosa nostra». Falcone intervenne e precisò che erano stati uccisi «nonostante le loro indiscutibili capacità professionali, anche per minime disattenzioni o errori di valutazione e di analisi. Non è possibile distrarsi con Cosa nostra». L’ultima frase, nel testo pubblicato in Italia è uscita ancora diversa: «Purtroppo in questa difficile battaglia gli errori si pagano».
In un passaggio dedicato ai rapporti tra mafia e imprenditoria, la giornalista aveva scritto che, in certe situazioni, «la contiguità è un delitto»; affermazione che Falcone modificò in «può diventare un delitto». «È molto più blando», sottolinea Padovani, che poi si sofferma sul brano finale, all’ultima pagina: «Io avevo scritto “In Sicilia la mafia colpisce soltanto i servitori dello Stato che lo Stato non riesce a proteggere”. Lui ha cancellato quel soltanto».
Chissà se mentre chiudeva il libro con quella correzione Falcone pensò a sé, protetto ma non abbastanza, saltato in aria qualche mese più tardi assieme alla moglie e tre agenti di scorta. Anche durante i ventidue pranzi con Marcelle Padovani, mentre lui mangiava e parlava e lei prendeva appunti, fino all’immancabile bicchiere di vodka, c’erano sempre gli uomini della sicurezza; all’erta ma a debita distanza.
Il racconto di Padovani si allarga alle foto che la ritraggono con Falcone, una volta a tavola e un’altra alla presentazione a Parigi, e rivela la volontà del giudice-scrittore di uscire dai luoghi comuni sulla mafia per svelarne la natura autentica, inestricabilmente legata alle radici siciliane e alla cultura dell’isola. La stessa del magistrato che per certi versi si rispecchiava negli «uomini d’onore», per comprenderne e contrastarne meglio i presunti valori, oltre che i delitti. Arrivando alla conclusione che Cosa nostra non è un Antistato, come altri sostenevano in quel periodo, altri rappresentanti delle istituzioni, bensì uno Stato parallelo e illegale che offre ai cittadini ciò che lo Stato legale non è capace di offrire.
Risalendo al primo incontro, in una sera del lontano 1983, nel palazzo di giustizia palermitano buio, blindato e deserto, da cui scaturì un articolo per il Nouvel Observateur sul «piccolo giudice» che combatteva la mafia, nelle cinque puntate del podcast, Padovani ripercorre la vita e la morte di un Falcone come pochi lo hanno conosciuto. Descrivendone, come ha fatto pure nel suo ultimo libro intitolato Giovanni Falcone trent’anni dopo (pubblicato da Sperling & Kupfer), il tratto anche ilare, scherzoso e sdrammatizzante. Ma sempre rigoroso e scevro da protagonismo: «Ha voluto essere un simbolo di magistrato. E lo è diventato».