Corriere della Sera, 18 maggio 2022
Intervista a Domenico Procacci
«Un vero rocker». Il copyright è di Gabriele Muccino che di Domenico Procacci è amico oltre che compagno di strada. Opinione condivisa da molti, a proposito del fondatore della casa di produzione Fandango che ha fatto la storia del cinema italiano degli ultimi tre decenni. Il diretto interessato, 62 anni compiuti in febbraio, il physique du rôle del rocker l’avrebbe pure ma si schermisce. «Questa storia nasce dal fatto che da ragazzo avevo la fissa degli stivali texani, quelli con il tacco obliquo, a punta, anche pitonati. Poi abbiamo girato Radiofreccia di Ligabue e Luciano è colui che ha il monopolio di quel tipo di stivali. Mi sono reso conto che mi guardavano e pensavano, sarà un fan che lo imita. Così li ho appesi al chiodo. Vedo che ora non li mette più, potrei riprenderli. Il mestiere che avrei voluto fare è lo stuntman. Sarebbe stato divertente».
Vedendo la sua opera prima da regista, «Una squadra», la docuserie attualmente su Sky, sulla vittoria italiana della Coppa Davis in Cile, viene da pensare che avrebbe voluto essere al posto di Panatta e compagni.
«Come loro non c’è nessuno. Tutto quello che ha circondato l’unica vittoria italiana in quel torneo – interrogazioni parlamentari, cortei, minacce di morte, la storia della maglietta rossa – ha poco a che fare con la possibilità di giocare da favoriti una finale. E in più loro sono personaggi da commedia. L’ho detto: Adriano come Vittorio Gassman, Paolo Bertolucci Ugo Tognazzi, Tonino Zugarelli Nino Manfredi, Corrado Barazzutti lo Stefano Satta Flores di C’eravamo tanto amati. E il capitano Nicola Pietrangeli Adolfo Celi. Opera prima fa intendere che ce ne possano essere altre. Meglio unica».
Se la Fandango fosse un album di figurine, sarebbero pochi i nomi del cinema italiano a mancare. L’elenco di chi ci lavora o ci ha lavorato porterebbe via mezzo articolo: Muccino, Garrone, Sorrentino, Rubini, Francesca Comencini, Moretti, Özpetek, Capuano, Crialese, Nicchiarelli, Rovere, Sibilia, Archibugi, solo tra gli autori. Per non parlare degli attori.
«Il produttore non avendo un talento suo deve riuscire a riconoscere quello degli altri».
Chi è stato il più bravo produttore italiano?
«Franco Cristaldi. Era unico e sapeva di esserlo, ho avuto la fortuna di lavorarci, una scuola. Puoi seguire il gusto del pubblico oppure, come lui, cercare di proporre, in maniera vantaggiosa, una tua idea di cinema, di racconto».
Con «L’ultimo bacio» di Muccino arrivarono anche i grandi incassi.
«Vero. Ma con Gabriele prima ci fu Ecco fatto che era un gran film, divertentissimo, che quando uscì in sala non vide nessuno. Non ho pensato di chiudere, lui era un talento talmente evidente. Qualità e pubblico per me non sono un ossimoro. Gomorra di Matteo Garrone è uno di quei casi in cui lavori molto sulla qualità senza preoccuparti degli eventuali ostacoli. E fu un successo. Non condivido l’idea, prevalente da un certo momento in poi, che il valore di un film debba coincidere con il suo risultato economico. Provo a raggiungere pubblico più vasto possibile senza rinunciare alla qualità».
Con Garrone come con Paolo Sorrentino avete fatto un pezzo di strada.
«Matteo aveva prodotto i suoi primi film da solo, poi ne abbiamo fatti quattro insieme, quindi è andato avanti da solo. Ha un talento straordinario. Come Paolo. Ci siamo incontrati dopo che aveva già fatto un film bellissimo, L’uomo in più, per Le conseguenze dell’amore e poi L’amico di famiglia anche con Nicola Giuliano e Francesca Cima, i suoi produttori storici».
Le è dispiaciuto perderli?
«Sì, molto».
Professionalmente o umanamente?
«Entrambe le cose, forse addirittura più umanamente. È importante fare percorsi insieme».
Ora produce il quarto film di Nanni Moretti. Avete anche portato elefanti e bandiere rosse a via dei Fori imperiali.
«Notevole sì. Per Il sol dell’avvenire, dopo Habemus papam, Mia madre, Tre piani».
Ha fama di essere difficile, invece?
«Invece è difficile. Lui può scegliere di lavorare con chi vuole, sono felice che sia con noi. Con persone così impari molto».
Il film che vorrebbe aver prodotto lei e hanno fatto altri?
«I film di Nanni precedenti a quelli fatti con me e quelli di Paolo e Matteo dopo di me».
È vero che con «Diaz» di Daniele Vicari Fandango ha rischiato la bancarotta?
«Andava fatto grande, con Daniele non avevamo dubbi. Sapevo di imbarcarmi in un’operazione impegnativa e costosa e che avrei dovuto finanziarlo io. Pensavo di potermelo permettere ma non era così. Ma per fortuna l’abbiamo fatto. Ne vado molto fiero perché ha dato un contributo a capire cosa è stata Genova 2001. Fandango nasce nel 1989, in 30 anni abbondanti ci sono tanti momenti di montagne russe. Alti e bassi. Ci abbiamo fatto il callo».
Il «pof pof» di Panatta
Quella scena diventata famosa in cui Adriano spiega l’incontro tra la pallina e la racchetta l’ho scritta io. Ci ho vinto un Nastro d’argento, che soddisfazione
Tra quelli alti l’acquisizione dei diritti de «L’amica geniale» per la serie, fortunatissima.
«Buona parte del merito va a Laura Paolucci, una delle mie socie. Una felice intuizione. Erano già usciti due libri, abbiamo letto il terzo in bozza e opzionato diritti per i quattro libri, non era ancora scoppiata la Ferrante Fever».
Chi è secondo lei Elena Ferrante?
«In un mondo in cui si cerca di apparire il più possibile se c’è qualcuno che pur avendo un talento e un successo indiscutibile preferisce viverlo nell’anonimato, ha tutta la mia ammirazione. Ha forte personalità, una identità precisa se pur anonima».
Lei e sua moglie Kasia Smutniak siete la coppia più bella del cinema italiano.
«E molto riservata. Posso dire che Kasia è arrivata nella mia vita poco prima che il mio disordine esistenziale diventasse patetico. Le sono grato per questo».
Kasia ha detto che sul lavoro le mette soggezione.
«È stato all’epoca di Made in Italy di Ligabue. Si scontravano due richieste opposte. Da un lato quella di Luciano, che già da Radiofreccia aveva messo la mia presenza durante le riprese come precondizione. Dall’altra quella di Kasia che preferiva non ci fossi. L’ho risolta allontanandomi un po’. Era una scena in campagna, mi ha visto dietro un cespuglio con le cuffie davanti al monitor. Ho fatto figure migliori, diciamo».
Ha lavorato anche con Ferzan Özpetek.
«Un bel successo come Mine vaganti. È una delle persone più divertenti con cui lavorare. Spero ricapiti, ha eletto Kasia a sua musa, magari risuccederà, ci spero».
Che padre è per vostro figlio Leone?
«Ho letto che Guido Brera vieta i videogiochi ai figli, sono ammiratissimo, non sono capace. Non penso di essere un buon educatore. Kasia ha più capacità di me. L’unico momento in cui esprimo il polso del genitore è costringendo Leone a giocare a tennis, gli ho detto che fino a 12 anni gli tocca. Ne ha 7».
Nel libro uscito con la serie c’è questa dedica: «A Kasia che del tennis già da tempo non ne può più. A Sophie (la figlia che Smutniak ha avuto da Pietro Taricone, ndr) che una volta mi ha detto “gioco solo per fare piacere a te”, io le ho risposto: “Sei libera di smettere quando vuoi”, e lei quel giorno ha smesso. A Leone, che mi ha detto quella stessa frase, io non ho ripetuto l’errore, e quindi è tuttora costretto a giocare».
«Appunto».
Quando ha capito di voler fare il produttore?
«Sono nato a Bari, nessuno in famiglia aveva legami con il cinema, era una cosa mia. Pensavo di scrivere o fare il regista. L’approdo alla scuola Gaumont, diretta da Renzo Rossellini, è stata casualità. Ero a Cattolica nel 1981 c’era il MystFest diretto da Felice Laudadio. Ne ho sentito parlare lì. Avrei voluto fare il Centro Sperimentale, ma era il biennio sbagliato, così ho provato quella. Poi con amici come Giuseppe Piccioni e Antonello Grimaldi, abbiamo creato la Vertigo film e fatto Il grande Blek. Fondare la Fandango è stata una scelta consapevole: volevo fare i miei film da produttore, non da regista. Primo film, La stazione di Sergio Rubini».
Però prima di «Una squadra» c’è stato un altro lavoro dietro la macchina da presa.
«Un cortometraggio, saggio di fine corso della scuola, fu selezionato nell’83 al MystFest, titolo Zucchero no grazie. Un gioco sui meccanismi del giallo. Protagonisti un bambino che tirava ossessivamente una palla da tennis contro una parete e un orco che entrava nella storia».
Già il tennis.
«È il mio ritratto di Dorian Gray. Nel lavoro sono lucido e composto, in campo viene fuori la mia parte di instabilità emotiva. Ora non spacco più le racchette, per un sessantenne sarebbe patetico, ma lo farei volentieri. Perdo con gente con cui non si dovrebbe perdere».
Panatta la prende molto in giro.
«Il primo che ho conosciuto è stato lui. E gli ho fatto girare una scena scritta da me, poi diventata famosa, quella del pof pof, in cui Adriano spiega il rumore che nasce dall’incontro tra la racchetta e la palla, nel film La profezia dell’armadillo da Zerocalcare. Ha pure vinto il Miglior cameo ai Nastri d’argento. Bella soddisfazione».
La vita secondo Pacino
Eravamo a cena e lui era assediato dai fan. Gli ho detto: «Non è una vita facile così». E lui: «No, anzi, la vita non sarà facile quando le persone non mi cercheranno più»
Per chiudere ci aveva promesso un aneddoto.
«Ero con Gabriele Muccino a Los Angeles a cena con Al Pacino per un progetto poi non andato in porto, sarà stato 15 anni fa. Ci ha dato un passaggio in hotel. All’uscita del ristorante c’era una folla ad aspettarlo, ha firmato autografi poi alcuni fan ci hanno seguito mentre l’autista cercava di seminarli. Stava diventando pericoloso. Lui ha fatto fermare la macchina, ha ricominciato con foto e autografi, ma gli ha fatto promettere di smetterla di seguirci. Gli ho chiesto: se ogni volta che vai al ristorante succede così non è una vita facile. Mi ha risposto: no, il giorno che uscirò dal ristorante e non mi inseguiranno più, quella non sarà una vita facile. Ci pensino quelli che dopo due pose si sentono già star».