Corriere della Sera, 18 maggio 2022
Xi, Putin e Erdogan: quando l’autocrazia non si sente molto bene
Tre anni fa, il direttore del «Financial Times» fu scortato lungo i corridoi del Cremlino fino alla sala dove doveva incontrare Vladimir Putin. Il giornalista, Lionel Barber, era al suo ultimo grande colpo prima di lasciare la guida del quotidiano di Londra che, con lui, si era opposto alla Brexit, si era opposto all’ascesa di Donald Trump, aveva rappresentato per quindici anni la voce dell’internazionalismo liberale e fin lì aveva perso molte battaglie. La Brexit si era consumata, Trump aveva vinto nel 2016 e Putin quel giorno del 2019 affidò a Barber parole memorabili: «L’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della maggioranza schiacciante della popolazione», disse il dittatore. Putin ripescò dalla memoria un proverbio russo per riassumere quella che a lui sembrava la superiorità degli autocrati: «Chi non prende rischi – disse – non beve mai champagne».
Quell’idea era nell’aria. L’apparente efficienza degli autocrati nel garantire crescita e influenza globale ai loro Paesi contrastava con le rivolte anti establishment in America, Gran Bretagna, Francia, Italia che mettevano in dubbio la capacità di reazione delle democrazie. Non è diverso il concetto formulato da Xi Jinping un anno fa: «L’Oriente è in ascesa e l’Occidente in declino», ha detto il leader cinese che in autunno punta a un terzo mandato – senza precedenti dai tempi di Mao – da segretario del partito. Non si comprendono le scelte dei grandi dittatori di questo secolo senza la loro convinzione di essere dalla parte giusta della storia. Come dice Ruan Zongze del ministero degli Esteri di Pechino: «Chi rappresenta i trend del futuro dovrebbe diventare la forza che guida».
Non è trascorso molto tempo da queste dichiarazioni, eppure sembrano di un’era passata. I loro autori sono ancora nei palazzi del potere, ma le certezze recenti sembrano invecchiate di colpo di fronte a una realtà che corre più forte. Lo fa sui campi di battaglia dell’Ucraina. Lo fa nel porto di Shanghai, paralizzato dai diktat di Xi nel tentativo di reprimere la variante Omicron del Covid. Lo fa nei mercati di Istanbul dove le illusioni di onnipotenza di un altro dittatore, Recep Tayyip Erdogan, vengono spazzate via da uno tsunami di inflazione.
Gli ultimi giorni hanno consegnato ai grandi autocrati dati economici che riflettono impietosamente i loro evitabili errori. In aprile 45 città cinesi, circa metà della seconda economia mondiale secondo Gavekal Dragonomics, erano bloccate in vari lockdown per volere di Xi Jinping. Il commercio al dettaglio nel mese è crollato dell’11%, la produzione di automobili del 41%, i nuovi progetti edili del 44% e anche la crescita dell’export è ormai meno di un terzo di quella di un anno fa. La segregazione di centinaia di milioni di operai e impiegati costa cara. A Xi non resterà che istigare ancora più debito per investimenti inutili – ponti sul nulla, grattacieli per sempre vuoti – per avvicinare gli obiettivi di crescita. Del resto l’avvicinarsi del ventesimo congresso del partito comunista in autunno rende l’autocrate nervoso: se il rito si consumasse mentre là fuori Omicron imperversa, forse l’opposizione interna a Xi rialzerebbe la testa. Tutti sanno già ciò che l’uomo forte di Pechino non può dire: i vaccini cinesi sono arretrati, impotenti contro Omicron, dunque non resta che la repressione più cieca. Ma anche i suoi devastanti effetti sociali stanno costando all’autocrate malumori e credibilità.
Che del resto qualcosa di simile accada anche a Putin lo dicono già solo i dati. Di 21 impianti per la produzione di auto in Russia oggi solo uno funziona normalmente – della cinese Haval – mentre gli altri mancano di pezzi o di investitori esteri e in aprile la vendita di modelli nuovi è collassata del 79% su un anno prima. Le sanzioni occidentali non saranno perfette, ma mordono e l’economia crollerà tre volte più che con la pandemia. Intanto in Turchia la lira in nove mesi ha perso metà del suo valore sul dollaro e l’inflazione in aprile sfiora il 70% per un semplice motivo: Erdogan si era illuso di poter licenziare una serie di banchieri centrali che lo richiamavano alla necessità di una stretta monetaria. Credeva di poter fare da sé e ora dovrà assumersi la responsabilità per il caos che ne segue.
I problemi di Xi, Putin e Erdogan sono naturalmente diversi fra loro, ma un filo sommerso li lega: i tre hanno compiuto scelte catastrofiche per le loro economie, perché affetti dalla cecità di chi non è esposto a portatori di idee diverse dalle proprie. Perché magari la democrazia sarà anche «in declino», ma anche l’autocrazia non si sente molto bene.