Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 18 Mercoledì calendario

Ciclismo il Mondiale 2025 si correrà in Ruanda

JESI— Nel 2025 il Ruanda ospiterà i Mondiali di ciclismo su strada. Mentre annunciava la scelta di Kigali come città di arrivo delle prove iridate, il presidente Uci David Lappartient disse, a settembre scorso: «Il ciclismo si apre a nuovi orizzonti». A parte sporadiche apparizioni – il tunisino Ali Neffati fu il primo africano al via del Tour, nel 1913 – si deve arrivare fino al velocista sudafricano Robbie Hunter, nel 2007, per assistere a un successo di un africano in una grande corsa a tappe, ancora il Tour. Mai, invece, s’era visto vincere un corridore dell’Africa nera.
Una grande svolta per il ciclismo africano è arrivata con la nascita del progetto Qhubeka, fondato nel 1997 dal sudafricano Douglas Ryder. Ora, nel World Tour, la Serie A del ciclismo, ci sono 7 corridori africani di tre diversi paesi, Sudafrica, Eritrea e Etiopia. Al Giro gli eritrei sono tre: Biniam Girmay, Merhawi Kudus e Natnael Tesfatsion. In Africa esistono importanti corse a tappe, frequentate anche da europei, come la Tropicale Amissa Bongo e il Tour du Rwanda, palcoscenico per corridori emergenti. Girmay s’era fatto notare vincendo proprio una tappa dell’Amissa Bongo nel 2019 in una volata in cui aveva battuto tra gli altri Bonifazio e Greipel.
E poi esiste il World Cycling Centre di Aigle, un megaprogetto nato nel 2002 per lanciare giovani emergenti in tre discipline del ciclismo: strada, pista e bmx. Ogni anno Aigle ospita circa 100 atleti provenienti da Paesi in via di sviluppo. A carico dell’Uci sono divise, biciclette, allenatori, permanenza nella smisurata foresteria. Il ciclismo ha comunque confini molto più ampi di un tempo. Basti un numero: dal 2009 hanno trionfato nel Mondiale su strada maschile sei Paesi che non l’avevano mai vinto prima (Australia, Norvegia, Portogallo, Polonia, Slovacchia e Danimarca). E ilmondo più largo è costato ai paesi storici una drastica riduzione nei successi: l’Italia non ha più vinto l’iride dal 2008, l’Olanda è ferma dall’85, la Francia ci ha messo 23 anni, dal 1997 al 2020, per rivincere. E gli africani hanno smesso di fare solo folklore, di essere solo belle storie da raccontare. Come quella di Nic Dlamini, arrivato fuori tempo massimo nella tappa di Tignes, all’ultimo Tour, sotto una pioggia battente, tanto che gli stavano smontando il traguardo attorno. Lui, con un impermeabile prestato da qualcuno a bordo strada, era arrivato a un’ora e mezza dai primi. Ma era arrivato. Sembrava la metafora di un Continente atteso da sempre a fare del ciclismo quello che ha fatto del mezzofondo e delle corse su strada dell’atletica. Girmay ha spalancato una porta d’oro, adesso.