la Repubblica, 18 maggio 2022
Santino Di Matteo racconta come è stato pianificato l’attentato a Falcone: dalle prime riunioni in campagna alle prove su strada
«Un giorno, mi dissero: “Prendi la tua auto e vai in autostrada che dobbiamo fare delle prove”. E iniziai a girare attorno allo svincolo di Capaci, ma non sapevo ancora chi fosse l’obiettivo». Santino Di Matteo è il primo pentito che ha svelato i segreti della strage Falcone, un anno e mezzo dopo l’attentato: «Per quelle parole ho pagato un prezzo altissimo – sussurra —. Hanno rapito mio figlio Giuseppe, l’hanno ucciso. Ma ha vinto comunque lui, i mafiosi sono stati sommersi dagli ergastoli».
Trent’anni dopo quel cratere sull’autostrada, che segnò la storia del Paese, l’ex mafioso di Altofonte avverte: «Cosa nostra si riorganizza, lo Stato non deve abbassare la guardia. Mi preoccupa che Matteo Messina Denaro sia ancora latitante».
Quando seppe che quei giri in autostrada erano le prove generali dell’attentato al giudice Falcone?
«Qualcuno me lo disse poco dopo. Si fidavano, le prime riunioni le avevano fatte a casa mia, in campagna, ad inizio di maggio. Poi, non mi cercarono più. Il pomeriggio del 23 maggio, ero in piazza ad Altofonte, venne Gioacchino La Barbera dopo l’attentato e mi disse: “Vieni a casa di Gioè”. Lì trovai Giovanni Brusca, mi spiegò cos’era successo».
Da cosa nasceva la fiducia dei vertici mafiosi nei suoi confronti?
«Sono cresciuto in quel mondo. Mio padre faceva la raccolta del latte e da ragazzino andavo con lui a Corleone, alla fine degli anni Cinquanta: così ho conosciuto Luciano Liggio. E anche Salvatore Riina, all’epoca era ancora giovane e non era certo un capo, come poi diventò. Fra i mafiosi più autorevoli di Corleone, c’era invece il latitante Giuseppe Ruffino, un killer spietato. Riina diceva di lui: “Persone come queste non ne nasceranno mai più”».
Quando decise di rompere con quel mondo e di iniziare a collaborare con la giustizia?
«Sono stato l’ultimo a vedere in vita Antonino Gioè, uno dei principali autori della strage di Capaci. Quel giorno del luglio 1993, nel carcere romano di Rebibbia, mi sorpresero i suoi discorsi: diceva che faceva tanti colloqui con i familiari, che in cella mangiava tutto quello che voleva.
Intanto, però, era trasandato, aveva la barba lunga. “Ma che staicombinando?”, gli chiesi. Avevo il sospetto che stesse iniziando a parlare con i magistrati. Quella notte, all’improvviso, mi trasferirono all’Asinara. Seppi che Gioè si eraimpiccato, evidentemente schiacciato dalla sua scelta di parlare. Lasciò una lettera in cui c’era scritto: “Se volete scoprire la verità andate a chiedere a Di Matteo”».
Cosa le chiesero?
«Facevano tante domande, io avevo un grande logorio dentro. Sapevo che avevano ragione, ma resistevo.
Fino a quando un giorno ho detto: “Vi do una mano”. E da quelmomento non ho più smesso di riempire verbali. Mi hanno portato in elicottero a Roma e ho incontrato il procuratore di Palermo Caselli. Dopo di me, tanti altri mafiosi hanno parlato. A cominciare da La Barbera, che aveva vissuto in prima persona quel 23 maggio».
La mafia delle stragi è stata smantellata, ma resta latitante Messina Denaro. Perché secondo lei?
«Bisogna fare molta attenzione, i mafiosi che vengono scarcerati provano sempre a riorganizzare Cosa nostra. E Messina Denaro, ricercato dal giugno 1993, continuaa essere un punto di riferimento. Sono convinto che si nasconda in Sicilia, dove gode ancora di tante protezioni e complicità, vecchie e nuove. Probabilmente, avrà messo avanti persone sconosciute, mentre lui se ne sta riservato, magari vive all’interno di una famiglia fidata che si prende cura di lui».
Trent’anni dopo le stragi, cosa non sappiamo ancora?
«Ci sono mafiosi che hanno patrimoni immensi mai sequestrati. I Madonia, per esempio: negli anni Ottanta incassavano un miliardo di euro al mese dal racket del pizzo nelcentro di Palermo.
Non è stato mai trovato neanche il tesoro di Bernardo Provenzano. E, poi, c’è il tesoro dei cosiddetti scappati della guerra di mafia, gli Inzerillo: dopo la morte di Riina, sono tornati dagli Stati Uniti e hanno tanta voglia di riprendersi Palermo».
Intanto, fiumi di droga sono tornati a scorrere in città.
Cosa determinerà negli equilibri interni dei clan?
«Come negli anni Settanta, le famiglie stanno conducendo insieme grandi affari. Ma il rischio è che vada a finire come allora, quando qualcuno provò a fare il furbo, rubando una partita di droga. E così cominciarono a sparare. Bisogna fare davvero molta attenzione. Ai mafiosi che ancora si ostinano a portare avanti disegni di morte, vorrei rivolgere un appello».
Cosa vorrebbe dire loro?
«Questa strada vi porterà alla rovina, non l’avete ancora capito?»
Chi è oggi Santino Di Matteo?
«Nel 1997 lo Stato mi ha espulso dal programma di protezione, avevo la colpa di essere tornato in Sicilia a cercare mio figlio. Ma quante vite ho salvato con le mie dichiarazioni?
Oggi vivo lontano dalla mia terra, aiuto un giovane sacerdote che si occupa di tossicodipendenti e immigrati. Intanto, continuo ad andare a deporre nei processi, fino alla settimana scorsa mi hanno chiamato. Non mi sono mai tirato indietro, nonostante la morte di mio figlio. Contro la mafia c’è una sola strada: andare avanti. Molto si è fatto, ma ancora tanto resta da fare: se lo Stato abbassa la guardia quelli torneranno forti».