La Stampa, 18 maggio 2022
Intervista a Chiara Appendino
Il giorno dopo l’onda emotiva non è ancora smaltita. «Questa notte mi sono svegliata tre volte. Ho faticato a dormire. È stata dura, un calvario lungo sei anni». Uno fatica a immaginarsela una sofferenza così pesante per una contestazione tutto sommato lieve: un falso da 5 milioni in un Comune con un bilancio di un miliardo 300 milioni e una condanna a sei mesi. C’è chi non ha fatto una piega per molto peggio, ma Chiara Appendino è fatta così: «Per me era una macchia pesantissima, un macigno. I sei mesi non c’entrano nulla: mi sentivo messa in discussione nella mia moralità. E la moralità, per chi si occupa della cosa pubblica, è la condizione di partenza. Un sindaco dev’essere un esempio. Se invece si porta dietro un’ombra, per quanto possa essere convinto di aver agito correttamente, è qualcosa di indelebile».
Se fosse stata assolta in primo grado si sarebbe ricandidata?
«Forse, non lo so. È difficile dirlo adesso. Di sicuro con quella macchia non potevo farlo. Del resto la mia vicenda ha contribuito, forse perché riguardava la sindaca di una grande città, a far luce sulla situazione di tanti amministratori che ricoprono ruoli di responsabilità, e si assumono rischi, fuori da ogni ragionevolezza. Da tanti di loro – e dal mondo politico in modo trasversale – in questi mesi sono arrivati moltissimi messaggi di solidarietà e vicinanza. Mi hanno scritto anche gli ultimi tre sindaci di Torino. Mi ha fatto molto piacere».
E quello attuale, da cui è partito l’esposto che l’ha portata a processo?
«No, lui no. Probabilmente ha prevalso l’imbarazzo. Va bene così».
Si aspettava qualcosa di diverso?
«Non mi aspettavo niente. Sono cose che attengono alla sensibilità di ciascuno. Ho ricevuto molti più messaggi di quel che pensassi».
Un fiume, dal suo partito. Erano un po’ meno quando l’avevano condannata.
«Non è vero. Il Movimento mi ha sempre dimostrato totale vicinanza, non mi ha mai lasciata sola».
È ancora autosospesa?
«Da ieri direi di no: per il nostro codice etico la questione è superata».
Davvero non si è sentita messa in disparte?
«E perché? La decisione di autosospendermi è stata mia, non me l’ha chiesto nessuno».
Ma nessuno ha provato a farle cambiare idea.
«Qualcuno sì. Ma io non volevo deroghe. Ho aderito al Movimento anche per quel principio, sarebbe stato scorretto chiedere di accantonarlo perché era toccato a me. Ma, ripeto, ho sempre sentito il M5S, a cominciare dai vertici, al mio fianco. Non era scontato».
Perché no?
«Per il nostro codice etico, una condanna con dolo, pesa. E invece mi hanno sostenuta. Mi hanno chiesto di ricandidarmi a sindaca e poi mi hanno coinvolto in questo progetto della scuola di formazione in cui credo molto».
Formazione lampo di una classe dirigente in vista di elezioni anticipate?
«Per quel che ci riguarda no. Io penso che il Movimento debba portare a termine la legislatura nella compagine di governo. Ci siamo fatti carico di momenti complessi e scelte difficili, è giusto andare fino in fondo».
Conte non sembra pensarla allo stesso modo.
«Sostenere il governo non vuol dire essere acritici e rinunciare ai propri valori o a porre condizioni. Le nostre idee vanno rispettate e i nostri numeri fatti pesare».
Il pantheon della vostra scuola di formazione dà una direzione netta al Movimento come forza progressista.
«È la collocazione che ho sempre auspicato e in cui credo».
Eppure l’alleanza con il Pd scricchiola, come minimo.
«Il campo di alleanze per me resta quello poi è chiaro che gli accordi non si scrivono a tavolino ma sulla base di valori, idee, programmi».
Parliamo di programmi...
«Il reddito di cittadinanza vogliamo abolirlo o estenderlo? E come contrastiamo il caro prezzi e la recessione che incombe tutelando la popolazione fragile? Banchieri come Carlo Messina parlano di aumentare i salari: cosa dice il campo progressista? La legge sul salario minimo giace in Parlamento: la portiamo avanti o no? Vorrei assistere a queste discussioni, vedere partiti che non temono di affrontare questi temi e li fanno pesare dentro il governo. Saranno mesi complicati dal punto di vista sociale, la solidità del campo progressista si misurerà sulle risposte che saprà dare a chi è in difficoltà. E su come affronteremo il tema dei diritti».
Le trascrizioni dei figli di coppie omogenitoriali, una sua battaglia, si sono fermate.
«C’è ancora tanto da fare a livello normativo e questo governo non ha i numeri. Detto questo mi dispiace molto che questo percorso si sia interrotto: non giudico la scelta del Comune di Torino ma mi sembra sia mancato un po’ di coraggio e voglia di dare battaglia».
Non crede ci siano un po’ troppi temi che vi stanno allontanando dal Pd, guerra compresa?
«Discutere non è un peccato. Noi l’abbiamo fatto intensamente, al nostro interno: abbiamo detto di sì, non senza sofferenza, all’invio di armi all’Ucraina nella prima fase del conflitto. Ora però ogni sforzo va concertato sulla diplomazia e l’Europa deve tornare protagonista».
Come si fa a parlare di pace con chi si macchia di crimini di guerra?
«Avendo in mente un obiettivo chiaro: creare le condizioni per un dialogo e per la fine del conflitto anziché protrarre la guerra per anni o far germogliare un conflitto permanente in Europa».
Che cosa ha fatto in questi sei mesi?
«La mamma, la moglie. Non ho avuto modo di sentire il distacco da un impegno che assorbiva tutta me stessa, se è questo quel che vuole sapere. I figli fanno altrettanto. Ho fatto cose normali che prima mi erano precluse per vari motivi: non ero mai andata a prendere mia figlia a scuola, ad esempio; o al cinema con la mia famiglia. E ho vissuto da cittadina questa stagione di Torino: le Atp, Eurovision. Farlo tra le persone è stato bello e strano: ho potuto vedere dalla loro prospettiva gli effetti del nostro lavoro. Quand’ero dall’altra parte non riuscivo a godermi nulla: ero sempre in apprensione, dovevo badare che tutto andasse bene».
Dice chi la sostiene: Atp ed Eurovison sono meriti di Appendino ma chi governa ora la oscura. È così?
«Ma no, non mi interessa. Conta solo che siano state manifestazioni di successo per la città».
Un voto a Lo Russo, il suo successore?
«Niente voti, so quanto è duro fare il sindaco e non credo sia giusto dare giudizi. Di sicuro ha avuto un inizio più facile del mio: la prima cosa che atterrò sulla mia scrivania era l’ipotesi di trasferimento del Salone del Libro a Milano. L’abbiamo difeso e ora è più forte che mai. Lui ha iniziato con le Atp Finals, che avrà per cinque anni, ereditato Eurovision, il patto per Torino (il cui merito credo sia giusto riconoscere alla viceministra Castelli), i fondi del Pnrr. Però sia chiaro: non recrimino. La mia è stata un’esperienza bellissima. E faccio il tifo per Torino, chiunque la guidi».