Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 17 Martedì calendario

Intervista ad Alessandra Sensini

Tutta colpa di babbo Goffredo. «Ci portava sempre in barca, a noi quattro sorelle, fin da piccoline. Quel giorno gli giravo intorno urlando “voglio andare in acqua, voglio andare in acqua”. Lui mi prese e mi lanciò in mare». Era la sua regola: sfida i tuoi limiti. È diventato il motto anche di Alessandra Sensini, pluricampionessa olimpica di windsurf, la toscana che negli anni Ottanta fece scoprire all’Italia le tavole che sfrecciavano sulle onde e nel vento, non più esclusiva dei fisici scolpiti della California. «Quel giorno babbo si buttò a prendermi, perché stavo andando giù. Da allora in poi mi ha insegnato a competere, soprattutto con me stessa».
Merito del babbo, allora?
«È stato lui a darci l’impronta. Mia mamma è morta che avevo sedici anni ma ha avuto a lungo problemi con la salute e non poteva starci dietro molto. È stato mio padre la nostra guida».
Tutte donne in famiglia a parte lui?
«Babbo non faceva distinzioni di genere. Aveva figlie femmine? Vabbé, lui aveva la passione per il mare e s’andava in mare, inverno ed estate, con ogni tempo. Eravamo la sua squadra».
Un femminista involontario?
«Beh, sì. Ci ha fatto crescere con l’idea di essere sempre pronte a tutto, indipendenti e forti. Amava gli sport d’acqua che a quei tempi, a livello competitivo, erano maschili».
Come si rapportava Alessandra coi ragazzi?
«Da subito mi sono trovata a competere con loro. Facevo pallacanestro e giocavo da playmaker in una squadra maschile. Con il windsurf gareggiavo con coetanei maschi. Io mi trovavo a mio agio, se loro soffrivano non lo so proprio».
Perché alla fine ha scelto il windsurf?
«Perché era uno sport con una strada ancora tutta da tracciare, non dipendevi da un allenatore né da una squadra. Alla fine ho trovato nel windsurf quella libertà che cercavo. A 15 anni sono salita su un aereo e non ho più smesso».
Cos’è la competizione per Alessandra?
«Fin da ragazzina volevo fare l’atleta. D’altronde, con mio padre non facevo in tempo ad imparare uno sport che mi buttava a fare una gara. Anche se non ero in condizione. Però era duro solo nello spingermi a finirla. Potevo arrivare anche ultima, ma se partecipavo a una gara dovevo arrivare in fondo. Per cui lo sport io l’ho conosciuto essenzialmente attraverso questa competizione che da subito è diventata più una sfida con me stessa che con gli altri. Ero un’autodidatta e dovevo capire da sola cosa fare per vincere».
Sei olimpiadi e quattro medaglie, 10 titoli mondiali, 5 europei, due ai giochi del Mediterraneo, una world cup del circuito professionistico windsurf e 23 titoli italiani. Di tutte queste vittorie, qual è il ricordo più bello?
«Ce ne sono tanti però non posso non dire la medaglia d’oro olimpica. In quel momento è il sogno che si avvera, l’obbiettivo che centri, unico, difficile. È il momento in cui devi performare al massimo, hai solo quella chance. E si è svolta in Australia, un Paese che ho amato da subito».
Racconti...
«Sono partita il 25 dicembre del 1987 e lì ho festeggiato i diciotto anni, il 26 gennaio. Mi innamorai della gente, dello stile di vita, dell’energia che ti caricava ogni giorno, l’oceano e la luce e il vento. Non potevo non vincere le Olimpiadi».
E cosa le ha detto babbo Goffredo?
«La mattina dell’ultima regata, a Sidney, venne a farmi il consueto saluto davanti alla base nautica. Era tutto carino “non ti preoccupare, vada come vada, tanto noi ti si vuole bene lo stesso”. Poi, mentre se ne stava andando, non si tenne. Si girò e mi disse “comunque se vinci è meglio”. E fu bello, per me. Mi misi a ridere».
Qual è invece il ricordo più brutto?
«L’Olimpiade di Atene. Ero in grado di vincere l’oro, ce l’avevo al collo praticamente. Invece, quando sono entrata per l’ultima prova una serie di fatti e coincidenze mi hanno fatto perdere la concentrazione. Quando accadono queste cose ti dai sempre la colpa, anche se pure quelli che mi stavano accanto non hanno aiutato».
La sconfitta abbatte o insegna?
«Le sconfitte insegnano sempre. A capire l’errore e ad accettarlo. Solo così riesci a migliorare, a lavorare sui punti deboli. È sbagliato chiamarle sconfitte. Anche per i giovani, non è la terminologia giusta. Non sono sconfitte, sono tappe. Che inevitabilmente, in qualsiasi campo, devi affrontare. Nessuno vince subito nella vita».
In gara vince di più la testa o la passione?
«Tutte e due. La testa perché devi sapere affrontare la paura prima di entrare in gara; è necessaria ma non deve diventare un limite. Devi saperla trasformare. La testa è fondamentale in uno sport tecnico e tattico come la vela o il windsurf dove devi prendere in considerazione il vento, la posizione degli avversari, la boa, le onde, la corrente... Una marea di informazioni che devi costantemente elaborare, mettendole peraltro in un ordine di priorità che cambia in continuazione. Però, poi serve il cuore, perché è lui che non ti fa fermare, che ti fa superare i limiti».
E nella vita?
Il babbo Goffredo
A noi quattro sorelle ci portava sempre in barca, fin da piccole Un giorno mi prese e mi lanciò in acqua: fu il suo modo di insegnarmi a competere
«Nella vita utilizzo un po’ lo stesso sistema. Ma non è che proprio funzioni... (ride)... Nella vita ci sono sfumature diverse».
È più complicata di una gara di windsurf?
«Da morire, sicuramente sì. La vita è difficile. Nello sport alla fine c’è un numero che è nero su bianco, una volta ti può andare male, puoi anche essere boicottata, però la costanza premia. E dà il valore. Non puoi essere costantemente sfigata. La vita non è così. Tu fai qualcosa che ti sembra buono e gli altri non apprezzano».
Cos’è la gioia di vivere?
«Io sono contenta quando sto con persone a cui voglio bene, amici o familiari... ma la gioia vera è quando sono in mezzo al mare e plano con un windsurf o una barca o un kite, quando ho la sensazione di navigare veloce sul mare, nella maniera che amo io».
Il 26 maggio parlerà anche di questo, nello showroom milanese di Roberto Ricci Designs per la rassegna «Sea on words – Parole da aMare». Un ex atleta di windsurf anche Roberto e un amico. Un ricordo che vi lega?
«Nel 1991, finita una regata in Malesia, finimmo su delle isole remotissime, incontaminate... Dormivamo in stanze con lampade a petrolio, per fare la doccia tiravi su l’acqua da un pozzo, il bagno era un buco per terra, e il ristorante era un pescatore che dietro uno scoglio cucinava in un wok il pescato del giorno. Al mattino apro la porta e vedo questo spettacolo di palme e sabbia bianca e acqua trasparente. Era solo natura, nessun rumore. L’essenzialità. Un’esperienza simile l’ho vissuta nella traversata dell’Atlantico, 19 giorni in barca senza telefono, in mezzo all’oceano. La prima settimana avevo mille pensieri, poi è scattato qualcosa, entri in uno stato di pace sul mare che è sempre vivo e ti tiene a galla».
Un mare da proteggere...
«Bisogna adottare nuovi stili di vita, inquinare il meno possibile. Serve una campagna per educare al rispetto dell’ambiente e a vivere nella natura. La politica può fare molto, sia creando servizi sia imponendo regole ma anche aiutando le aziende a migliorare, a essere plastic free».
Cos’è l’amore per lei ? Su internet non si trova nulla sulla sua vita privata...
«Te lo presento il mio amore, eccolo qui – e prende in braccio il suo cane, uno schnauzer nano nero, ndr —. Si chiama Maui, come l’isola delle Hawaii. Scherzi a parte, l’ho cercato molto l’amore. Forse sono rimasta a un ideale d’amore da film. Nella prima parte della mia vita non ho avuto tempo, non riuscivo a conciliare sport e amore. Non essendo dentro gruppi sportivi, dovevo anche crearmi una strada, mettere da parte dei soldi per dopo... Era un lavoro».
E poi?
«Da grande l’ho forse vissuto come una teenager, d’altra parte lo sport ti lascia giovane di testa. Oggi, dopo tanti tentativi ho capito le dinamiche. E sto bene con Maui».
Fin da piccola ha viaggiato. Rimpianti? Forse la rinuncia alla vita privata?
«Oggi no. Ma quando finisci la carriera agonistica, devi quasi reimparare a vivere. Prima eri la campionessa, dopo perdi i punti di riferimento e devi ricostruire il tutto. Ci ho messo un po’ di anni a fare questo percorso. Onestamente, mi sarebbe piaciuto avere una famiglia. La volevo, l’ho anche cercata, però non è venuta».
Invece, ha fatto un master di management fino a diventare vice-presidente del Coni.
«Mi piace molto l’aspetto tecnico e stare con i ragazzi. La parte politica è invece qualcosa che necessariamente devi imparare a conoscere per svolgere meglio il lavoro pratico. È stata una bella esperienza, un periodo di grandi scoperte e alcuni momenti difficili».
Nel 2009 è stata candidata con il Partito democratico, poi disse mai più. Perché?
Ride. «Era una candidatura europea e forse nell’ingenuità mia, o per come mi era stata proposta, pensavo davvero di andare a rappresentare l’Italia in Europa. Feci la campagna a modo mio. Capii subito che quell’ambiente non faceva per me. Non mi trovai a mio agio, insomma».
Oggi che progetti ha?
«Sono felice alla direzione tecnica del settore giovanile della Federazione italiana Vela, e aprirò finalmente una scuola di vela a Marina di Grosseto con mio nipote Manuel».
Come sta la vela italiana?
«Sta bene. Anche perché questa pandemia ha avvicinato moltissima gente all’aria aperta, a fare sport più legati alla natura. C’è stata una crescita nei numeri delle scuole vela molto importante, quindi anche la pratica nell’agonismo si è allargata. Lo scorso anno a Tokyo la vela italiana ha vinto un oro, era dalla mia medaglia di Sydney che non accadeva. Il trend è positivo».
Un messaggio ai più giovani?
«Fare sport significa stringere nuove amicizie, creare un gruppo, che ti seguirà per il resto della vita. Lo sport non è solo sacrificio. E non necessariamente devi farlo a livello agonistico».
Vice presidente Coni
Mi piace molto stare con i ragazzi e seguire gli aspetti tecnici Quando finisce una carriera sportiva non è facile ripartire, io ci ho messo un po’ di anni...
Però se vinci è meglio direbbe il babbo...
«Questo è vero».