Tuttolibri, 7 maggio 2022
Intervista a Jennifer Egan - su "La casa di marzapane" (Mondadori)
Dodici anni fa usciva Il tempo è un bastardo. È uno degli ultimi romanzi americani di cui ci ricordiamo attivamente, uno degli ultimi a fare della letteratura un fatto così personale senza essere scritto in prima persona, capace di rendere la finzione il più intimo dei meccanismi, attraverso il punk, la nostalgia, la questione inarrivabile dell’autenticità. Jennifer Egan torna con un romanzo che non è un sequel, ma un collasso in un altro spazio. Come al solito, tratta la letteratura come se fosse una macchina pensante, un ingranaggio capace di spaccarci la coscienza. La casa di marzapane è un gioco stregato in cui non si vince e non si perde; serve solo per andare alla ricerca di una delle ossessioni di Jennifer Egan: «la cosa in sé». C’è chi ci arriva con una spedizione presso una tribù remota, chi con un gioco di ruolo, una droga o un romanzo: è la «cosa in sé» la forza che ci disintegra.
Anni fa parlavi dell’influenza delle serie TV sulla tua percezione del tempo: non solo Proust, ma anche i “Soprano”. Oggi incombono il multiverso e il metaverso, i film Marvel e le imprese di Zuckerberg. “La casa di marzapane” non è un sequel: è un’espansione. Questo passaggio dal tempo allo spazio che riguarda la cultura di massa c’entra anche con te?
«Il tempo è un bastardo era un’esplorazione del tempo tramite la musica. La casa di marzapane è un’esplorazione dello spazio tramite la tecnologia digitale, ma soprattutto tramite i giochi di ruolo che si spostano tra mondi. Non è un sequel. Un sequel presuppone una cronologia, e nessuno dei due libri fa affidamento su questo modo di leggere il tempo. Lo vedo come una relazione. Sono due romanzi collegati ma non c’è alcuna ragione di leggere entrambi. Se lo fai, la direzione più soddisfacente è partire da questo, perché ha una qualità più generativa».
Non ho riletto “Il tempo è un bastardo”: volevo che la mia esperienza facesse affidamento estremo su quello che ricordavo. E sono ricordi molto lucidi e vivi; mi sono riconnessa subito ai personaggi. Non sto dicendo che il nuovo romanzo lascerà meno residui nella mia memoria, ma come scrivi anche tu, la tecnologia si espande e presuppone una perdita. Credi che la nostra capacità di trattenere personaggi e trame sia cambiata negli anni?
«Non ho riletto Il tempo è un bastardo quasi fino alla fine di La casa di marzapane. Non volevo essere influenzata da niente, se non dal ricordo che ne avevo. Ho aspettato, e ho sbagliato un sacco di cose! Ho dovuto riscrivere molto, eliminare nuovi dettagli e vite generate. Il modo in cui ricordiamo i romanzi: non so. Sono affascinata da come la tecnologia interagisce con la memoria, ma non sento di capirlo. Molto strumenti che controllano le nostre esperienze online usano la nostalgia come meccanismo di attrazione. Accade di continuo, con l’album di foto, il dove eri all’epoca. Siamo costretti a essere nostalgici e a guardare indietro, ma è una seduzione, più che un fatto. Per me La casa di marzapane è più decentralizzato: è più aderente al mondo che provo a descrivere, frammentato e laterale. Il modo in cui la tecnologia condiziona quasi naturalmente la nostra memoria è rendendo i ricordi meno chiari e lucidi, più diffusi».
È come se avessimo bisogno di pacchetti extra per fissare delle storie: è il modello Marvel, espandiamo le versioni di un personaggio dandogli tante vite in tanti universi. Nel mio caso, i personaggi che ho amato nel 2010 sono gli stessi che ho amato qui (Lou e famiglia), quasi fosse una combinazione inevitabile. Il libro mi conosce. È un algoritmo romantico, a modo suo.
«Gli uomini tendono a pensare che il “vecchio” personaggio principale fosse Bennie Salazar il produttore discografico; le donne davano per scontato che fosse Sasha. Ma ognuno si fa il viaggio che vuole: in America c’è chi dice che La casa di marzapane sia una distopia; alcuni lo hanno criticato per essere troppo ottimista. Non mi dispiace: io non controllo e non creo percorsi di lettura. Ma qui sono molto più estremi e individuali rispetto all’altro libro, al di là del campo positivo o negativo, me ne sono accorta subito. Nelle varie combinazioni possibili, io e te siamo allineate: per me è la famiglia di Lou il centro».
Distopia è una parola troppo facile: tutti i tuoi libri hanno a che fare l’oscuro tecnologico. Qui si parla di una macchina che permette di riappropriarsi dei propri ricordi e di riviverli anche attraverso la percezione degli altri. È un processo osceno e cannibale, ma potenzialmente è anche “positivo” quando si tratta di affrontare il lutto o la perdita della memoria per malattia.
«A me interessa la tecnologia per come viene vissuta. Sono una baby boomer, temo che i tempi cambino e non per il meglio, quindi sono molto vigile e preoccupata, ma è noioso. Nessuno inventa macchine cattive; succede solo nei film. Le persone tendono a credere in quello che fanno, a credere di migliorare qualcosa, e le conseguenze sono spesso più angosciose per l’ideatore che per gli altri. Quelli della Silicon Valley mandano i figli in scuole escluse da tutto affinché non usino quello che hanno contribuito a creare, e questo mi interessa più di un demiurgo malvagio che ha tutto il potere in mano».
Il “creativo” Bix Bouton crea l’equivalente di Facebook (Mandala), basandosi su Modelli dell’affinità, un testo antropologico sull’intimità tra non consanguinei, ma non gli basta più. Gli serve una nuova visione. Il libro parte proprio da una tecnologia che non sa inventare altro, quasi conservativa. Ma è la stessa cosa che diciamo del romanzo, che non sa inventare più: molta letteratura contemporanea si basa su storie “vere”. Poi Bouton inventa Riprenditi l’inconscio, che permette di esplorare la propria coscienza passata anche da altri punti di vista e tu fai qualcosa di simile: ci permetti di assistere a uno evento, come la morte di un amico per annegamento, ruotandogli attorno. Inventi come lui: romanzo e tecnica si somigliano.
«Sì, anche se l’invenzione di Bix è stata una delle ultime cose a succedere mentre scrivevo. Sapevo che avrebbe inventato qualcosa, sapevo che sarebbe stato importante, ma questa «idea geniale» è stata trascinata dal romanzo, dalle cose che volevo fare con il libro a livello di forma. Bix inventa la macchina che mi serviva per scrivere il libro che ho scritto, dopo che l’ho iniziato. Se parli della tensione verso l’autofiction, penso di essere e di collocarmi al suo esatto opposto. Se avverto il minimo sentore di me o di qualcuno che conosco io muoio, torno indietro, cancello. Scrivere questi libri per me è come usare una bacchetta da rabdomante. Dov’è il calore attorno a un personaggio? Dov’è la soluzione che mi permette di tornare da lui o da lei in maniera indiretta, creando un’esperienza narrativa coinvolgente?».
L’ossessione dell’autenticità: ne “Il tempo è un bastardo” usavi la musica punk come veicolo per distinguere chi era “vero” da chi non lo era. In questo libro l’autenticità assume un sapore più cupo e contagioso. Miles si chiede se farsi di droghe senza un contesto degradato o senza conoscere il proprio spacciatore sia “veramente” farsi di droghe. Cambi la cornice, il tema persiste.
«La mia preoccupazione verso l’autentico coincide con la preoccupazione della cultura contemporanea verso l’autentico. Tutti e due i libri sono guidati dall’innata “naturale artificialità” della esperienza digitale. Ogni cosa digitale cerca di offrirci un effetto di autenticità e immediatezza, ma è implicitamente falso. Al centro dell’esperienza mediatica c’è una fame per qualcosa di non mediato, e i social provano a soddisfarla con esperienze sempre più «autentiche» che in realtà sono sempre più mediate e artificiali. Ma la fame resta. A prescindere dalla tecnologia».
Eppure io avverto un cambiamento. Come dimostra “Il tempo è un bastardo”, un tempo la fame era soprattutto verso sé stessi; c’era la voglia di avere una coerenza interna ed esterna di e mostrarla come un tatuaggio. Come se tutto scaturisse dalla domanda: “Quando sono stato il mio sé più vero?”, per dargli la caccia tempo. Oggi descrivi un mondo molto più dedicato al gioco di ruolo, al trovarsi negli altri, abitare altri cervelli; parli del desiderio di essere nelle memorie di qualcun altro e non dentro le proprie.
«Quando vedevo mio figlio che guardava altre persone giocare online invece di giocare lui stesso, pensavo di assistere a una pazzia. Il problema non era più togliergli i videogiochi, ma impedirgli di guardare altri che giocavano. Poi ho capito, e gli devo molto: in quel momento stava entrando nel cervello di qualcun altro. Faceva quello che faccio io quando leggo un romanzo. Sono grata ai miei figli per avermi introdotto a esperienze mediatiche a cui non avrei potuto avere accesso negli ultimi dieci anni. L’autenticità come feticcio è sempre presente, ce l’avevamo noi e ce l’hanno anche loro. Ma è interessante tracciarla. Tutto quel che scrivo ruota attorno alla transazione per ottenere autenticità, e il costo che comporta».
L’altro tema dei tuoi romanzi è la dipendenza. Spesso fluiva tramite i corpi; la tua scrittura è caratterizzata da un campo erotico e magnetico che qui manca completamente. Anzi, rischi quasi la storia d’amore “classica”: Lincoln, il figlio di Sasha, è un esperto di dati che conta le lentiggini di M, potrebbe programma come farla innamorare ma esita per non falsare del tutto il risultato.
«Non ho mai scritto una storia d’amore prima di sviluppare Lincoln da grande. La casa di marzapane è un libro “pulito”. Forse volevo solo cambiare: il desiderio erotico può essere limitante da esplorare, in un certo senso va sempre nello stesso modo. Negli altri romanzi tutti i vettori creavano una tensione che poteva convergere in quel punto, qui no. Il sesso accade fuori dalla pagina. E questo asseconda la mia idea di fiction: cosa sappiamo, cosa sta fuori? Dobbiamo sapere tutto? Alla fine, il sentimento che anima il libro è l’amore genitoriale. Quando è uscito Il tempo è un bastardo, i miei figli avevano sei e nove anni, ora vanno al college. Uno era ossessionato dal baseball, l’altro dai videogiochi. Ho passato molti pomeriggi ad assistere a sessioni di Dungeons and Dragons in cucina e a giochi statistici sul baseball in soffitta… Litigavo sempre con quello appassionato di baseball: io volevo che leggesse i libri, lui guardava solo le statistiche. Mi diceva “Guarda che sto leggendo anch’io”. Un giorno è stato in grado di creare una storia su un giocatore solo a partire dai numeri. È stato commovente. Prima o poi avrò un capitolo fatto solo di dati statistici».
Presenta tuo figlio a Don DeLillo. Si piacerebbero.
«Beh, DeLillo sul baseball ha scritto l’inarrivabile» .
“Il tempo è un bastardo” era strutturato come un concept album. Qui usi Build, Break, Drop, Build: la struttura della musica dance elettronica.
«Non ero sicura di volere un riferimento musicale, ma non sapevo come intitolare le sezioni. Quando ascolto musica, mi chiedo sempre come posso usare le strutture di certe canzoni indie-rock per riportarle nella fiction e piegarle ai miei scopi. Avevo preso un appunto su Paper Boats dei Nada Surf. Mi colpiva il modo in cui a un certo punto il testo finisce, si afferma un altro ritmo che va avanti, si aggiungono strumenti su strumenti e poi ti rendi conto che il ritmo “nuovo” era sempre stato lì, fin dall’inizio. C’è l’emersione latente di una struttura più profonda che risuona quando tutto il resto scompare. Una marea scura, che affiora dalla materia in superficie. Lo trovo bellissimo. Volevo fosse questa la relazione tra i capitoli de La casa di marzapane: non dovevano contribuire a un unico grande romanzo, crescere e accumularsi, ma dislocarsi, spiazzarsi, decentrarsi a vicenda. Poi ho letto un articolo sul New Yorker di Anna Wiener, l’autrice di Uncanny Valley, quando descrive la musica dance elettronica come il perfetto accompagnamento per lavorare nel tech. La struttura di quei pezzi è fatta proprio così, c’è qualcosa che arriva e invade e spiazza quello che c’era prima. E ho trovato questa soluzione non a una festa o a un rave, ma leggendo il New Yorker. Pensa come sono messa!