Corriere della Sera, 16 maggio 2022
Intervista a Giuliano Amato
A trent’anni dalle stragi di mafia che indussero governo e Parlamento a varare il cosiddetto ergastolo ostativo – cioè il divieto di liberazione condizionale per gli affiliati alla criminalità organizzata che non si pentono e non collaborano con la giustizia – la Corte costituzionale ha evitato di cancellare una norma già dichiarata incostituzionale un anno fa, concedendo alle Camere altri sei mesi per portare a termine la riforma.
Presidente Amato, vi hanno accusato di avere tradito le attese dei detenuti, in ossequio ai partiti inadempienti.
«Io comprendo le reazioni e i punti di vista di tutti, ma alle Corti tocca essere equilibrate. Qui si tratta di bilanciare da un lato la tutela dei diritti delle persone in relazione ai presupposti per chiedere l’accesso ai benefici penitenziari, dall’altro le particolari ragioni di sicurezza che la legislazione italiana ha sempre riconosciuto in materia di mafia».
Quindi i diritti violati dei mafiosi pesano meno?
«Niente affatto. Anzi, la Corte s’è preoccupata più di chiunque altro di evitare che i condannati per reati di mafia subiscano vessazioni irragionevoli, è intervenuta su diversi aspetti del “41 bis”, il cosiddetto “carcere duro”, e abbiamo già dichiarato incostituzionale il diniego automatico dei permessi ai condannati che non hanno collaborato. Nel caso della liberazione condizionale, invece, spetta al Parlamento stabilire se e come regolarla, tenendo conto della maggiore severità che caratterizza la disciplina dei reati di mafia».
Però su altre questioni, come il suicidio assistito per i malati terminali o l’attribuzione ai figli del doppio cognome, non avete concesso altro tempo al Parlamento.
«Erano situazioni diverse. In quei casi non era stato fatto nulla, mentre per l’ergastolo ostativo la Camera ha approvato una riforma che il Senato ha già inserito nel suo ordine del giorno, con la richiesta di attendere il voto finale. Non potevamo non tenerne conto».
Non c’è alcuna garanzia che il Parlamento approvi la riforma entro sei mesi.
«Quando a novembre la Corte si troverà a decidere, non più in mia presenza, valuterà la situazione e in assenza di una riforma affronterà il problema se sancire l’incostituzionalità introducendo un vuoto legislativo che ora abbiamo voluto evitare. A quel punto spetterebbe al Parlamento colmarlo successivamente».
Il vuoto normativo sarebbe così grave? Non potrebbe essere il vero stimolo a una riforma che dopo un anno non ha visto la luce?
«Il vuoto lascerebbe soli a decidere i giudici di sorveglianza, affidati a se stessi e alle proprie valutazioni, con tutti i rischi del caso. Realizzando il massimo di incertezza del diritto. Parificare i condannati per mafia a quelli per altri reati, ai fini della concessione dei benefici, non tiene conto della specificità del fenomeno mafioso. La liberazione condizionale non è un diritto assoluto, il detenuto può chiederla a determinate condizioni fissate dalla legge. Ed è legittimo stabilire differenze tra quelle previste per un criminale comune e per un appartenente a un’organizzazione mafiosa in cui, come dice giustamente Gian Carlo Caselli, il legame è più stabile del matrimonio da quando esiste il divorzio».
Ma voi di fatto avete già stabilito che così com’è l’ergastolo ostativo è incostituzionale.
«Noi abbiamo detto che la collaborazione con i magistrati non può essere l’unico indice per valutare il distacco dall’organizzazione mafiosa. Anche perché ci sono stati casi di false collaborazioni da parte di chi non aveva affatto abbandonato l’organizzazione. È vero che stiamo parlando di diritti di libertà, ma ci dev’essere sempre un bilanciamento tra valori costituzionali, e qui – lo ripeto – ci sono in ballo anche ragioni di sicurezza legate alla specificità del fenomeno mafioso. Non a caso, nella sua storia, la giurisprudenza della Corte ha lasciato in vita norme ai limiti della tollerabilità costituzionale proprio in ragione della peculiarità di quel fenomeno criminale».
Vi siete sentiti obbligati per rispetto della «leale collaborazione istituzionale» con il Parlamento, sebbene sia rimasto inadempiente?
«C’è un problema di rispetto del legislatore, e noi non siamo la maestrina del Parlamento. Non diamo ordini, rivolgiamo inviti e non potremmo fare altrimenti. Se in un anno il Parlamento non si mostra in grado di affrontare una questione, com’è avvenuto per il suicidio assistito o il doppio cognome, io posso prendere la mia decisione senza tradire la leale collaborazione. Ma far valere una scadenza e non dare peso ai lavori in corso, soprattutto su questioni complesse, indebolirebbe la mia stessa credibilità rispetto alla leale collaborazione».
Con maggioranze ampie e composite come quella attuale è difficile sciogliere i nodi da voi indicati, e i diritti delle persone restano in attesa di leggi che non arrivano.
«Capita in ogni parte del mondo. Negli Stati Uniti le divisioni tra repubblicani e democratici, e fra gli stessi democratici, tengono fermi da due anni i tentativi di regolare sul piano federale l’interruzione della gravidanza, e si sta arrivando a una decisione unilaterale della Corte suprema senza indicazioni da parte del Congresso. Ci sono diritti evidenti e quindi semplici da definire, e altri in cui è difficile trovare una soluzione, proprio perché serve che il legislatore fissi delle regole nel loro esercizio. Purtroppo è così».
Nell’estate del 1992 lei divenne presidente del Consiglio proprio mentre il Parlamento, all’indomani della strage di Capaci, adottò l’ergastolo ostativo e le altre misure antimafia. È stato difficile affrontare oggi la questione?
«È stato difficile due anni fa, quando abbiamo deciso la prima questione sui permessi premio, e in particolare per me. Con il condizionamento delle terribili stragi di Capaci e via D’Amelio io avevo condiviso quel manicheismo che esiste ancora: o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi. C’è una componente ideologica in questa posizione, e non credo vada bene. Questa seconda decisione è stata più semplice, ed è passata senza alcuna opposizione».
Che ricordo ha delle stragi del 1992?
«Un ricordo sconvolgente, anche perché ebbero un grande peso sulla vita istituzionale. L’uccisione di Falcone portò all’immediata elezione di Scalfaro al Quirinale e quella di Borsellino, avvenuta mentre da neopresidente del Consiglio ero impegnato a tempo pieno sulla crisi economica, ripropose in maniera traumatica la questione irrisolta della mafia. Trent’anni dopo ci siamo ancora dentro, e la Corte ne è pienamente consapevole come dimostra la vicenda dell’ergastolo ostativo. L’antimafia ha fatto grandi passi avanti da allora, ma se ancora oggi ci sono imprenditori che subiscono attentati se non pagano il “pizzo” significa che la strada è lunga, e temo non finirà nemmeno il giorno in cui sarà catturato Matteo Messina Denaro».