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 2022  maggio 16 Lunedì calendario

Intervista al soldato Ilya Samoilenko, forse l’ultima. È a Mariupol e sa di avere le ore contate

Un’intervista sconvolgente come questa non la facevo da molto tempo.
Lui si chiama Ilya Samoilenko.
Ha 27 anni, un volto bello e pallidissimo, incorniciato da una barba scura sorprendentemente ben curata; uno dei suoi occhi è così spento da sembrare morto.
È il comandante in seconda dell’ultimo reparto di combattenti che ancora resiste nel complesso siderurgico di Azovstal, a Mariupol.
Si trova a trenta metri sotto terra, all’altro capo di un collegamento via Zoom, immerso in una luce smorta e fredda.
È convinto di morire nei prossimi giorni, forse addirittura nelle prossime ore, insieme ai propri compagni, un migliaio di uomini in tutto.
Il colloquio viene filmato, e qui lo riassumo.
Inizio io il dialogo:
Mi emoziona profondamente poter parlare con lei.
«E io sono molto contento di farlo. L’anno scorso, a Mariupol, lei ha conosciuto il nostro comandante, che la ricorda con parole cordiali».
Qual è la situazione ad Azovstal, in questo momento?
«La stessa di ieri e dell’altro giorno e di quello prima ancora. Ormai sono sette giorni, forse otto, ho perso il conto, che il tempo non scorre più, che non riusciamo più a distinguere il giorno dalla notte; otto giorni che la pressione del nemico aumenta, che attacca con forza usando i carrarmati, i cannoni della marina, gli aerei, tutto».
In Occidente si dice che i russi attacchino soprattutto dal cielo.
«Era vero prima, adesso non più. Da alcuni giorni sta aumentando il numero di assalti via terra, con truppe speciali».
Vuol dire combattimenti corpo a corpo?
«Sí. A ondate successive. E queste ondate ci sfibrano. Noi abbiamo fama di essere il miglior battaglione del Donbass, ma in questo caso siamo in affanno. È un ritmo infernale, non riusciamo più a sostenerlo, né a riprendere forza tra un attacco e l’altro».
E avete idea di quanti uomini compongano queste forze speciali russe?
«Diverse centinaia. Dotati di armamento tecnologicamente avanzato, di cui noi non disponiamo più. Noi però siamo sempre in movimento, conosciamo come le nostre tasche anche i meandri più reconditi, i tunnel, le camere blindate e le corazzature dei dodici chilometri quadrati su cui si estende il complesso siderurgico. È il nostro territorio.
Non ci installiamo mai del tutto nelle postazioni».
Gli noto nella voce, che finora suonava spossata, un’eco di risolutezza, di esultanza, quasi.
E come siete messi con le munizioni?
«Le munizioni sono il problema principale. Ne abbiamo per resistere una settimana, forse due, poi basta. Stessa cosa per i viveri e l’acqua. E zero armi pesanti ormai, zero tank, zero mortai, zero blindati. Zero. In realtà nessuno, nemmeno noi, prevedeva che i combattimenti sarebbero durati cosí a lungo».
A Washington sono in contatto con un gruppo di veterani che hanno in mente di far volar dei droni per rifornire l’acciaieria. Lo dico al comandante Samoilenko. La sua risposta viene coperta da un crepitio dopo un boato assordante, tanto che la deve ripetere.
«È un’idea che non funzionerà», dice.
Perché?
«Innanzitutto l’area di lancio più vicina è a circa 150 chilometri. E poi il primo drone che tentasse di sorvolare le nostre coordinate verrebbe abbattuto all’istante. No, è impossibile. A meno che non avvenga un miracolo, siamo condannati. È solo questione di giorni».
Penso a Masada. Al ghetto di Varsavia. Al passo di Roncisvalle della Chanson de Roland. All’eroismo di quest’uomo checontinua a montare la guardia e, come a Waterloo, muore ma non si arrende. Glielo dico. Lui scrolla il capo. Mi sembra che questi riferimenti gli siano familiari. Aggiungo:
C’è una cosa che non capisco, Ilya. Siete chiusi lí dentro senza alcuna possibilità di uscire; perché i russi non si accontentano di lasciarvi morire di fame e di sete, di limitarsi ad aspettare?
«Perché loro vogliono ammazzarci. Tutti. Uno per uno. Abbiamo avuto casi di compagni catturati. Li hanno giustiziati, in barba alle regole di guerra. Le madri di quei compagni hanno ricevuto la foto dell’assassinio, spedita direttamente dal cellulare dei loro figli. Ce n’è una di un compagno che soffoca in mezzo a un campo di segale, con la testa dentro un sacchetto di plastica».
Gli chiedo se posso avere quelle immagini.
«Gliele faremo arrivare. Ma vorrei che lei capisse una cosa: la nostra resistenza li manda fuori di testa. Se non ci fossimo ancora noi, il 9 maggio avrebbero proclamato la loro vittoria su Mariupol. Siamo il sassolino nella scarpa diPutin. La lisca che gli è rimasta conficcata in gola. Un simbolo che vuole annientare».
Agli occhi del mondo voi siete degli eroi.
«Eroi… Sí, pare che la gente pensi questo.
Invece no. Siamo soldati. Abbiamo ricevuto degli ordini. Obbediamo».
Quali ordini, per l’esattezza?
«Resistere. Continuare a resistere. Ancora una settimana. E poi un’altra. Lo Stato maggiore sa che ogni giorno guadagnato dal nostro resistere è un giorno che l’aggressore ha perduto. E il popolo ucraino guarda a noi: finché noi teniamo duro, anche il popolo tiene duro. Capitolare sarebbe una mazzata». Lo dice come un dato di fatto, senza sfoggio di fierezza. E ribadisce il concetto: «Tutti, qui dentro, abbiamo sfiorato la morte.
Ma le nostre singole vite non contano nulla.
Ciò che conta è l’Ucraina. È per questo che dobbiamo tener duro. L’unica cosa vietata è cedere, arrendersi. Sono molti i fronti ucraini lungo i quali il nostro esempio infonde coraggio. Non abbiamo diritto a dimenticarcene. Stiamo svolgendo un compito storico».
Obietto che gli eroi non nascono per morire;che sono più utili al popolo da vivi che da morti. Me lo concede, ma abbastanza controvoglia.
«È vero che alcuni tratti ci accomunano: un’esperienza di come si combatte, una storia. In Ucraina non sono mancati gli eroi.
Ma i patrioti dal sangue giovane hanno ancora cose da imparare».
Cade la linea. Lo richiamo.
Ilya, perché voi possiate trasmettere ai giovani tutto questo, bisogna che rimaniate vivi. Bisogna che i vostri compagni di battaglione, lo Stato maggiore, trovino il modo di tirarvi fuori da lí.
«Oh, lo Stato maggiore… Ci farà un bel monumento!».
No. Per Kiev salvare il vostro contingente è diventata una priorità strategica, glielo assicuro.
Sembra sorpreso, ma riesco a scorgere, nel suo occhio più vivo, un lampo di gioia da ragazzo.
«Può darsi. Grazie, in ogni caso, di avermelo detto. È vero che il nostro comandante ha parlato con il Presidente Zelensky diverse volte, nelle ultime due settimane. Ma non possiamo arrenderci. Troppi di noi sono morti. Centinaia. Non possono essere morti invano».
Lo capisco perfettamente. Ma un’operazione di salvataggio, per tirarvi fuori dall’acciaieria, perché no?
«Non se parla nemmeno. Anche se esistesse questa possibilità, preferiamo morire piuttosto che subire l’umiliazione di una resa. La parola resa non esiste, nel nostro dizionario».
Curiosamente è la stessa frase formulata dal giovane Massoud all’indomani dei fatti del 16 agosto in Afghanistan, quando mi concesse la sua prima intervista in assoluto e smentiva di essere in trattative con i talebani. Ilya accenna un lieve sorriso. E cambia tono.
«Tuttavia una buona notizia c’è…».
S’interrompe di colpo. Sembra faccia fatica a respirare, guarda in aria.
Una buona notizia?, chiedo.«Sí. Non ci sono più civili nel perimetro dell’acciaieria».
Lo ripete, pedagogicamente.
«Abbiamo evacuato i civili. Ora è tutto più semplice. Le operazioni militari non mettono più in pericolo degli innocenti. Abbiamo le mani libere, siamo liberi di usarle per combattere».
Com’è il morale, tra i suoi uomini?
«È alto. Portano sulle spalle il peso dell’intero Paese e non hanno alternativa. Devono mantenere alto il morale e resistere. Il problema sono i feriti…».
Ne avete molti?
«Diverse centinaia. Bisognerebbe evacuarli.
Ma i russi si oppongono. E così rimangono qui, si sentono ancora più ingabbiati e deperiscono. Io stesso sono stato ferito più volte».
Avete dei medici con voi?
«Degli ufficiali medici. Non dispongono di materiale, eccetto che per il Primo soccorso, ma fanno miracoli. Se c’è un buco, lo chiudono. Se c’è qualcosa di rotto, lo riaggiustano. E gli uomini tornano a combattere, battendo i denti per la febbre, con un occhio scoppiato, un membro amputato, con le stampelle e le bende».
E avrete ovviamente dei morti.
«Ovviamente».
Rendete loro gli onori militari? Li seppellite?
«Organizziamo una cerimonia militare, ma non possiamo dare loro sepoltura. Un giorno lo si farà. Perché anche questo è un nostro dovere, ma per il momento ne conserviamo in corpi in una cella frigorifera sotterranea.
Però…».
Guarda di nuovo verso l’alto, come se l’informazione fosse riservata.
«…però il nemico quella stanza refrigerata l’ha attaccata e distrutta. Da quel momento viviamo circondati dai morti. Sono nostri compagni. E speriamo che un giorno qualcuno, dopo di noi, si prenda cura di loro». La voce gli si spezza, lo sguardo si annacqua, il volto sembra cera.
«E poi» continua «ci sono anche compagni dei quali non possiamo recuperare i corpi. Sono caduti oltre le linee di difesa e il nemico ci impedisce di andarli a prendere».
Per i russi, che si dichiarano figli primogeniti dell’ortodossia, questo è commettere peccato.
Ride.
«Macché, nemmeno per sogno!».
D’accordo. Ma tutti quei pope che sono a favore della guerra, che benedicono i missili e cose del genere, non sentono nulla di fronte a questo sacrilegio?
«L’altra settimana, una delegazione di pope ucraini si è presentata all’entrata Est della città. Volevano recuperare quei corpi, per evitare che finissero in pasto ai cani. Il nemico ha finto di lasciarli passare. Poi ha razziato il convoglio, fatto saltare in aria le auto e lasciato marcire i cadaveri».
Ci sono ebrei tra i vostri morti?
«Certo. Ci sono persone di tante religioni, quindi anche ebrei. Uomini duri, e bravi combattenti».
So bene che il battaglione ha una pessima reputazione. Che all’inizio, come tutti i gruppi di resistenza di questo mondo, ha raccattato chiunque sapesse o fosse in grado di usare un’arma – compresi elementi di estrema destra. È come se Ilya mi leggesse nel pensiero.
«Non creda alla propaganda russa. Il battaglione è cambiato, ha purgato i propri ranghi dal passato oscuro. Il nostro unico radicalismo, oggi, è la volontà di difendere in modo radicale l’Ucraina».
Lo so.
«Grazie. E io so cosa significhi per gli ebrei non essere sepolti secondo i loro riti. Ci vorrebbe un rabbino».
Mi autorizza a scriverlo?
«Certo».
E a portare il vostro messaggio a Israele?
«Naturalmente. Sono nostri fratelli. In Israele sanno combattere e sanno morire».
Non mi piace il tono di rassegnazione sacrificale che ha assunto la conversazione.
Ribadisco:
Non si deve morire. Sono in corso delle petizioni, negli Stati Uniti e in Europa. C’è un movimento, guidato dalle donne che fanno parte della vostra vita, che chiede di salvare l’Azovstal.
Di nuovo, il bagliore di una gioia triste dentro il suo sguardo sofferente.
«Grazie, ma è troppo tardi. Nessuno può fare più nulla per noi».
Insisto.
S’immagini un grande Paese. La Francia, ad esempio. Si farebbe garante della vostra evacuazione. Che avvenisse con onore.
«Portando con noi le nostre armi?».
Certo, con le vostre armi. Lascereste l’Azovstal insieme alle vostre armi, con onore. La comunità internazionale l’ha già fatto una volta, quarant’anni fa, per i palestinesi di Beirut.
«Mantennero le loro armi da combattimento?». Sembra non crederci.
Certo. Pur essendoci tra loro dei terroristi.
Scuote il capo.
«Putin dice che anche noi siamo terroristi».
Può darsi. Ma Macron no. A un francese o a un americano il vostro coraggio ricorda quello di chi resistette contro Hitler.
Scrolla il capo di nuovo, ma mi permette di raccontargli la storia di Yasser Arafat che s’imbarcò su una nave protetto da 2.500 soldati francesi, americani e italiani. Mi autorizza a suggerire, a chi vorrà ascoltarla, l’idea di una nave per Mariupol, scortata da una forza nazionale o internazionale. Ciò che è stato fatto per i palestinesi perché non dovremmo farlo per questi uomini schiettamente audaci, che stanno morendo per l’Europa nei sotterranei dell’Azovstal? La linea s’interrompe ancora, la conversazione si spezzetta, diventa confusa. Io ora so che cosa devo fare. Il comandante Ilya Samoilenko riaggancia.
— Traduzione di Monica Rita Bedana