Emanuela Audisio per "il Venerdì - la Repubblica", 13 maggio 2022
FLASH SOLO IN CAMPO - MARCELL JACOBS SI RACCONTA IN UN’AUTOBIOGRAFIA: "IO NELLA VITA SONO PIGRO E LENTO, ALLA MIA PRIMA GARA NON MI SONO ALLACCIATO LE SCARPE E HO VINTO CON UN PIEDE SCALZO. NON ERO UN PREDESTINATO, SALTAVO IN LUNGO, MI FACEVO SPESSO MALE. NON VOLEVO CORRERE LA FINALE DEI 100 METRI A TOKYO, ERO STRAVOLTO. NON ASSORBIVO IL FUSO. VORREI FARE COME MENNEA E CORRERE 100 E 200 AGLI EUROPEI DEL 2024, CHE SI DISPUTERANNO A ROMA A CINQUANT’ANNI DALL’ULTIMA VOLTA. AVRÒ 29 ANNI…" -
Rigatoni al sugo, pollo con peperoni. Per Mr. Velocità. Si pranza sotto gli alberi, al riparo dal sole, accanto al campo di allenamento. Atmosfera rilassata da film di Tavernier. Appetiti di vita e di corsa. Muscoli tatuati.
Marcell Jacobs, 27 anni, campione olimpico dei 100 metri, è pronto a sorprendere. L’anno scorso a Tokyo scosse il mondo. Primo in una gara dove l’Italia non era mai riuscita a qualificarsi. Da esordiente a re. E ora da sprinter a scrittore.
Flash, si chiama la sua autobiografia per Piemme. Anche se la sua vita non è stata proprio un flash, ma una lenta costruzione, con curve e salti. Dal lungo alla corsa. Da bambino senza padre, a papà con tre figli. Da Desenzano a Gorizia a Roma. Da atleta che sbagliava i salti a un campione che non sbaglia più un rettilineo.
Nei 100 si corre in avanti, per scrivere invece? «L’opposto. Bisogna guardare indietro, ripensare, rivivere. Tornare nei luoghi che magari ci hanno fatto soffrire per accorgersi che quelle tensioni non ci sono più. Mi è capitato alle scuole Rogazioniste di Desenzano che avevo frequentato con un feeling non proprio amichevole, ma che era solo nella mia testa. Insomma, se avevo visto ombre non le ho più trovate.
O forse ero suggestionato dal giallo del delitto dell’Alabarda avvenuto in una notte di tormenta del 1947 nella villa isolata sul lago di Garda del conte Giovanni Pellegrini Malfatti. Mi è piaciuto il rewind della mia vita, è stato bello e emozionante. Ma vi avviso, non è ancora finita».
Il viaggio arriva alla finale di Tokyo: sarebbe stato interessante anche il dopo. «Dirò la verità, io non mi sento cambiato da quella sera del primo agosto. Anche ora mi chiedo: perché la gente mi guarda, perché si avvicina, cosa vuole da me? Non ho ancora metabolizzato quel successo. Quando sono rientrato in Italia, all’aeroporto di Fiumicino, c’era tutta la mia famiglia ad aspettarmi, mi ha fatto piacere, ma la mia vita non è cambiata. Non mi nascondo, mi alleno sempre nello stesso campo. L’unico cambiamento è che ho iniziato a giocare al golf, sono abbastanza coordinato, 185 metri con la mazza 6. A me piacciono tutti gli sport, basket e beach volley sono tra i miei preferiti. E che adesso in pista quello da braccare sono io. E poi volevo far capire che quel 9"80 viene da lontano. Da smarrimenti, da tormenti, da fallimenti».
Ci ha messo 26 anni per fermare quel cronometro. «Sì. Non ero un predestinato, saltavo in lungo, mi facevo spesso male, una serie infinita di guai, ho fatto piangere il mio coach Paolo Camossi, ex triplista, nel 2019 agli europei indoor di Glasgow, con tre nulli, eppure mi sentivo in forma. Lì abbiamo deciso di passare allo sprint. A volte i problemi sono delle opportunità da sfruttare, mi sono dovuto fermare nel 2014 per un infortunio al ginocchio, l’anno dopo mi sono stirato il bicipite femorale. Nel 2016 mi faccio male a un tallone e non vado a Rio.
Però fantasticavo sulle mie iniziali: MJ. Come Michael Jackson, Michael Jordan, Michael Johnson. Tutti grandi nomi. Non mi sono mai scoraggiato, sentivo che prima o poi i pezzi si sarebbero sistemati. Sono andato anche a farmi visitare dal dottor Müller-Wohlfahrt a Monaco di Baviera, che curava anche Bolt, e che mi ha messo 18 aghi nelle gambe. Per me allenarmi è un divertimento, non un sacrificio, non sono un musone. Ma ognuno deve poter scegliere, senza dare ascolto alle critiche.
La tennista australiana Barty, numero uno, ha detto addio allo sport a soli 25 anni. Se vuole altro, ha fatto benissimo. Voglio che il libro serva a questo, a dire ai ragazzi: osate, uscite dagli schemi, credete in voi stessi. Fate qualcosa delle vostre vite, non abbandonate i sogni. Guardate me: non avevo niente, ero pieno di buchi psicologici, ma volevo arrivare».
Ma se non la voleva nemmeno correre la finale dei 100. «Ero stravolto. Non assorbivo il fuso. All’alba ero già sveglio e la gara era di sera, il campo di allenamento era lontano, e io che in genere nel riscaldamento ballo un po’, non l’ho fatto, l’unica cosa che mi interessava era arrivare in finale, quando mi sono buttato sul traguardo nemmeno mi ero accorto di aver corso in 9"84, non mi interessava il tempo, ma la qualificazione, e avuta quella mi sono detto: ho le gambe rigide, piene di crampi, ce l’ho fatta, basta, non corro più. Poi sono rinsavito».
Nel libro parla della rivalità con Filippo Tortu. «Tortu è stata la mia kryptonite. L’avversario che mi indeboliva la testa, con lui ho imparato a perdere, che è una cosa importantissima. Mi batteva sempre perché ne ero ossessionato, era la mia debolezza, e quando vuoi a tutti i costi superare un rivale, parti giù sconfitto. Le nostre storie sono opposte, non c’è nulla di male ad essere diversi.
Ma la vita spesso fa male anche in corsia: lui il Cigno Bianco, io il Cigno Nero. Lui, predestinato, con una bella famiglia alle spalle e in più con un padre allenatore, sempre accanto a lui, io con un padre che non ho conosciuto fino al 2008, che non sapevo nemmeno disegnare tanto mi era sconosciuto, e comunque distante in America. Non ci vuole Freud per capire cosa mi annebbiava e mi faceva soffrire».
È il tema del libro: una madre, Viviana, molto indipendente, un padre, marine americano, molto assente, due fratellastri, Nicolò e Jacopo, molto amati, uno zio Giancarlo, ex motociclista, bronzo alle Paralimpiadi 2016, nonno Osvaldo che lo soprannominò "Motoretta". «Mamma ha sempre avuto molto coraggio, quando si sono conosciuti con papà lei aveva 16 anni, lui 18, io sono nato a El Paso, in Texas, dove si erano trasferiti, poi però quando avevo pochi mesi è tornata in Italia a Manerba perché non le andava di seguirlo in Corea. Mi sono tatuato i nomi e le date di nascita dei miei fratelli, tanto ero contento di non essere più solo e infatti li portavo a giocare con me e anche oggi siamo molto vicini. A nonno Osvaldo che mi ha sempre incoraggiato e che non c’è più ho dedicato la mia vittoria a Tokyo. E anche al mio team. Il lavoro con la mental coach è stato importante, soprattutto nel ricucire la frattura con mio padre che per me era una catena».
L’atletica italiana è sempre più multiculturale, diversamente da quando ha iniziato lei. «Vero. Soprattutto al vertice. Ai miei tempi c’erano solo Fiona May, e Andrew Howe che era il mio mito. La sua gara ai mondiali di Osaka nel 2007 è il primo ricordo che ho di una gara d’atletica in tv. Finalmente i nuovi italiani, ci chiamano così, emergono anche nello sport. Possiamo essere un esempio d’integrazione per le nuove generazioni che crescono e che qui studiano. Negli altri paesi, Francia, Gran Bretagna, è un processo già avviato da tempo, da noi ci si sorprende: e questi da dove sbucano?».
I figli migliorano un atleta? «Ti insegnano ad avere responsabilità, a pensare e a vedere le cose non solo per te. Jeremy è nato che avevo 19 anni, da una precedente relazione, Anthony è del 2019 e Meghan del 2020, li ho avuti da Nicole che sposerò il 17 settembre, giorno del suo compleanno, alla presenza dei tanti parenti americani.
Io nella vita sono pigro e lento, lo so che tutti pensano che gli sprinter sono dei nevrotici, ma anche Bolt ha la mia stessa tendenza, alla mia prima gara non mi sono allacciato le scarpe e ho vinto con un piede scalzo, anche Usain ai mondiali juniores non riusciva a infilarsi una scarpa anche perché stava mettendo la sinistra nella destra.
Ma io mi addormento ovunque, non ho nessuna difficoltà a prendere sonno, però sono sensibilissimo ai bambini, nel senso che se di notte uno di loro si muove, io mi sveglio».
Sarà un anno pieno di sfide importanti: mondiali di atletica, europei. «Esordirò anche sui 200 metri perché il mio allenatore dice che fanno curriculum e per variare un po’. L’idea è quella di fare come Mennea e di correre 100 e 200 agli europei del 2024, che si disputeranno a Roma a cinquant’anni dall’ultima volta. Avrò 29 anni, sarò ancora in forze, i miei muscoli lavoreranno ancora bene.
In più a fine stagione si conclude il rapporto con il mio sponsor e vedremo se e come rinnovare. La gente pensa che dato che noi ci divertiamo a fare sport dobbiamo accontentarci di correre senza pretendere nulla. Non è giusto, le nostre performance hanno un valore».
Lei corre veloce, ma ha paura di volare. «Molta. Mi inchiodo sul sedile, mi metto gli auricolari e guardo il film 6 Underground. Ormai è il mio rituale anti-paura da quando ho fatto un viaggio in piena tempesta da Londra a Bruxelles, solo il nostro aereo è partito e il comandante ci ha fatto sapere che era un momento molto challenging, stimolante. Non lo avesse mai detto, mi sono avvinghiato al mio posto, e ho alzato l’audio. Non mi piace non avere controllo sulle cose, non amo andare in auto quando guida qualcun altro. Il mio rettilineo della felicità resta sulla terra».