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 2022  maggio 15 Domenica calendario

“ALLE FESTE DELL’UNITÀ VENDEVO CALAMARI SURGELATI: DOVEVO SPACCIARLI PER FRESCHI. QUALCHE RIFLESSIONE SULLA SINISTRA ANDREBBE FATTA” – VINCENZO SALEMME ON FIRE: “HO GIRATO 12 FILM E NON HO MAI VINTO UN DAVID. LA CRITICA NAZIONALE NON VIENE MAI A VEDERMI.  FORSE PERCHÉ È DIFFICILE DARMI UN’ETICHETTA. A VOLTE MI DICONO: HAI RECITATO CON EDUARDO DE FILIPPO, CON NANNI MORETTI, E POI FAI QUESTE COSE A TEATRO? MA IO PER FARE QUESTE COSE HO..." - QUELL’INCONTRO CON LA HERZIGOVA… -

La prima cosa che caratterizza Vincenzo Salemme è la gentilezza, l’accoglienza, l’ospitalità. Poi viene tutto il resto, compreso il talento. Non lo dice ma si capisce che rivendica il suo diritto alla normalità. L’antidivismo di un attore si ritrova nella sua casa: poche foto dei suoi successi, l’«Io» tenuto nel cassetto. Ha un senso di gratitudine e di vera riconoscenza, alla fine del suo spettacolo, Napoletano? E famme ‘na pizza! quando chiede di fare un selfie col pubblico, gli attori sul palco e la platea alle spalle.

Perché fa il selfie? «Perché io devo il successo, come accade a pochi attori, a loro. Non ho avuto un riconoscimento diciamo istituzionale. Dopo le chiusure della pandemia ho ritrovato gli spettatori ed ero spaventato. Mi dicevo: ma non è che si sono scordati di me? Al debutto della tournée ho dovuto trattenere le lacrime. E poi, stare seduti due ore con la mascherina e ridere, mica è facile».

Perché dice che manca l’altro riconoscimento... Ha girato 12 film, mai vinto un David? «Mai. Manca la considerazione di quello che faccio, la critica nazionale non viene mai a vedermi. Ma non mi lamento, sono contento e appagato. Mi spiace non tanto per me, ma per chi esce di casa e va a teatro; mi spiace per il panorama italiano».

Perché succede? «Forse perché non somiglio a nessuno ed è difficile darmi un’etichetta. A volte mi dicono: hai recitato con Eduardo De Filippo, con Nanni Moretti, e poi fai queste cose a teatro? Ma io per fare queste cose ho avuto bisogno degli insegnamenti di Eduardo. L’attore prima di tutto ha il dovere di vivere. Devi essere autentico. Vivere e amare fino in fondo. E tutto questo finisce in palcoscenico».

Eduardo com’era? «Ho recitato in tre sue commedie in tv. Malgrado l’austerità e l’aspetto severo, era un uomo semplice. Nelle pause mi fulminava. Io restavo lì per vedere se mi diceva qualcosa. Voi lo sapete, mi diceva, perché mi viene a vedere tutta questa gente? Aspettano che io muoia. Così possono raccontare: l’ho visto morire. Il teatro è quello, è l’attimo in cui arriva, non è né prima né dopo».

Nel suo spettacolo prende di petto i luoghi comuni su Napoli, la pizza, il caffè che deve essere bollente, gli scippi... «C’è anche un luogo comune che mi riguarda. Quando mi presentano in tv dicono: attore comico napoletano. Ma non lo dicono di un milanese. Del napoletano, invece, sì».

È nato a Bacoli. «Mamma maestra elementare, papà avvocato. A Napoli andai al liceo Umberto. Trenta chilometri, un altro mondo. Mi sentivo fuori posto. Essere provinciale negli Anni 70 era diverso. Oggi c’è Internet... Se mi prendevano in giro? Beh sì, a Bacoli parliamo a cantilena, la u al posto della o, ‘u pane, ‘i femmene». Che tipo era? «Ero e sono un solitario. Cambiavo comitive. Sempre nomade, mai stanziale. A Bacoli frequentavo il cinema di mio prozio. Nei giorni feriali eravamo io, un sordomuto, un ragazzo down e Mimmotto ’o mostro, chiamato così per via di un incidente. Al tempo non c’era rispetto della diversità. Sono cresciuto con i peplum, Maciste, Ursus, i primi western, robaccia...».

A Napoli vendeva pesce alle Feste dell’Unità. «Da ragazzo dovevo spacciare per freschi i calamari surgelati, a mille lire. Io dissentivo. Mi veniva risposto da un dirigente del partito: che t’importa, è un prezzo politico... Obiettai: ma noi siamo la verità. E lui: se gli dici la verità, il pesce non se lo comprano più. Qualche riflessione sulla sinistra andrebbe fatta».

Quando ha cominciato a recitare? «Alle elementari dalle suore c’era la recita per il vescovo, mi piaceva il palcoscenico, potevo mostrarmi come non ero nella realtà. Avevo molti tic. Per esempio, dopo cinque metri mi giravo su me stesso. Per non impensierire mia madre, girandomi fingevo di salutarla. Recitavo per essere accettato. È qualcosa che ti rimane addosso. Alla seconda liceo recitai Napoli milionaria, una ragazza era amica di Sergio Solli che lavorava con Eduardo e mi fece fare uno spettacolino più professionale con Marisa Laurito. Poi un altro con Tato Russo. Avevo 17 anni. A 19, a Eduardo servivano comparse e mi diede due battute per la paga da attore. Mi vedeva così magro che pensava non avessi i soldi per il cibo». «Incontrò Monica Vitti grazie a Eduardo... Era Il cilindro. Al buio, lei di spalle a tutti, era proprio davanti a me, in calze nere. Restai di sasso. Mi disse: sai perché diventerai un grande attore? Perché quando reciti non hai i tic». Lei recita per la borghesia, a cui appartiene. «No, io mi considero piccolo borghese. La più bella borghesia è quella milanese: illuminata. A Napoli è feudale, più materiale; a Roma c’è la pancia della borghesia».

Ma c’è un pubblico che la fa sentire a casa? «Casa mia sono tutti i palcoscenici. Una volta recitavo a Vienna con Carlo Buccirosso e venne giù la sala per gli applausi. Maurizio Casagrande disse: ma questi non capiscono nulla, come fanno a ridere?».

Quali sono gli altri cliché? «A Napoli siamo noi che teniamo a rendere immortali cose che ci appartengono. La pizza, la mozzarella. O il rapporto pagano con San Gennaro. A Torino una signora mi disse: non capisco chi ha paura di andare a Napoli. Basta uscire senza mettersi l’orologio. Mi faceva i complimenti e fu razzista senza rendersene conto».

Pulcinella cosa rappresenta? «Lo sognavo. Io ero seduto, appariva dall’alto, tutta una macchia di sangue che saliva, saliva e diventava una macchia bianca. E diventavo io Pulcinella. Ho scritto per il teatro per superare le mie paure e rappresentare i miei fantasmi. Il terrore, come dicevo prima, di non essere accettato, di essere abbandonato. È una cosa nata quando ero bambino sonnambulo, mi alzavo di notte e parlavo all’incontrario».

Sembra avere un bell’universo onirico. «Felliniano, le donne prosperose...». È andato mai in analisi? «Psicologi, psichiatri. Freudiani, junghiani, li ho provati tutti. Il freudiano diceva che era l’incapacità di restare solo, è vero, è un mio difetto».

È apparso in tre film di Nanni Moretti. «Dopo avermi visto a teatro mi disse: perché non vieni a trovarmi sul set? Girava Sogni d’oro, mi diede due scene. Poi ci furono Bianca e La messa è finita, dove sono un terrorista. Eravamo in confidenza, tra una frittata con i maccheroni che si preparava a casa mia e una nuotata. Ma non era un’amicizia così stretta. Non credo mi amasse molto come attore».

Lui a volte è vittima di sé stesso. «È molto competitivo. A calcio balilla, Nanni, litigava anche con i bambini». Com’è stato lavorare con Fabio Fazio? «Andavamo all’impronta, io entravo in studio a programma già iniziato, facevo quello che viene preso in giro. La cosa bizzarra è che ancora oggi, dopo tre anni che sono andato via, la gente per strada mi dice: t’ho visto ieri da Fazio, eri fortissimo. Stessa cosa nel programma di Stefano De Martino, dove non sono mai andato».

Il cinema l’ha ripagata? «Fino a un certo punto, forse non sono riuscito a essere me stesso fino in fondo. A teatro il successo è enorme». Cosa ricorda del suo primo film? «L’amico del cuore. Vittorio Cecchi Gori mi convocò a Cannes. Aveva la barca lì, mi diede il numero dell’ormeggio. Io arrivai al porto con un’auto mezza scassata. Non vidi nessuno. A un certo punto due giganti mi chiesero: lei è Salemme? Erano le guardie del corpo di Vittorio Cecchi Gori. Stavo cercando la sua barca. Loro mi fanno il gesto di dire, è questa. Alzai lo sguardo. Non era uno yacht: era una cosa davvero esagerata. Pensavo fosse un traghetto». Fantastico. C’era Herzigova in quel film. «Era nel pieno della sua bellezza, e molto simpatica. Tempo dopo ero a New York le telefonai, le diedi appuntamento nel ristorante dove andavo ogni sera dopo i musical di Broadway. Lei arrivò prima di me. Il proprietario mi guardò con gli occhi di fuori, per lui ero diventato un’altra persona, come se fossi stato Alain Delon». Lei rivendica la sua normalità. «Gli attori spesso si prendono troppo sul serio. Come se dovessimo cambiare il mondo. L’universo ha 13 miliardi e 800 mila anni... L’unica cosa che abbiamo è l’occasione di vivere». È un autore rossiniano: anche lei ricorre agli autoimprestiti, riutilizza e rimonta battute prese da altre sue commedie... «Recitare però è evocazione, l’opposto della musica che è matematica. Se chiude gli occhi, io imito Nino Manfredi o Totò e lei li risente. Oggi le voci sono tutte uguali. L’istruzione può essere un grande inganno. Siamo tutti più colti e più ignoranti».

Benigni, Zalone: cosa vorrebbe di loro? «Di Zalone la feroce sfacciataggine; Benigni è geniale nell’intelligenza». Benigni è diventato una statua, un monumento, si è marmizzato. «Mi piacerebbe che accanto agli spettacoli su Dante e la Costituzione tornasse l’altro Benigni, e girasse uno dei suoi film. Mi piacerebbe questo Benigni e quell’altro Benigni. Mi manca Massimo Troisi, che purtroppo non ho conosciuto: aveva una dolcezza quasi femminile, pur essendo lui maschilissimo. Ma si possono dire queste cose, col politicamente corretto?».

Cos’è Napoli per lei? «È Francia, Spagna, Grecia; è nobiltà barbona, ricchezza polverosa, astuzia senza luce; è una cacofonia armoniosa di suoni e di voci di paura. Napoli è tanta roba, la perdo di giorno e la ritrovo in sogno».

Ma lei la pizza la mangia? «È il mio piatto preferito». Pizzeria preferita di Napoli? «E come faccio a dirglielo? Se faccio un nome, gli altri mi ammazzano».