Specchio, 15 maggio 2022
Paolo Belli si racconta
Trentadue anni fa, Milano, un pomeriggio buio, come capita in certi pomeriggi a Milano d’inverno. Paolo Belli traccheggia dalle parti di via Santa Radegonda, proprio di fianco al Duomo, confabulando con uno dei suoi compagni nei "Ladri di biciclette". Stanno aspettando di tuffarsi in corso Vittorio Emanuele, a fare un primo bagno di popolarità per strada, tra i ragazzi, dopo il primo disco, un grande successo. Paolo ha i capelli lunghi, tirati all’indietro, lo sguardo determinato ma teso. Si sta giocando il suo sogno di musicista. E lo sa.
Se oggi, a sessant’anni, incontrasse per magia il Paolo di quel giorno lì, che cosa gli direbbe?
«Gli direi "se sei veramente convinto e appassionato, fallo. Fai tutto quello che credi giusto. Se pensi davvero che questo sia il tuo mestiere studia. Se sei attorniato da persone che ti stanno stimolando, ascoltale. Ma ricordati che non devi farlo per diventare ricco e famoso. Preparati più che puoi e fai quello che ti rende felice. Il successo è la conseguenza, non lo scopo"».
Forse indietro nel tempo ci è stato davvero, perché oggi quel ragazzo è da molti anni volto e voce del sabato sera di Raiuno. Come si sente ad aver realizzato il suo sogno?
«Più che altro, mi sento un privilegiato. Mi sento come uno che è consapevole che in certi programmi hanno bisogno di una persona esattamente come me. E mi sento come uno che sa che sta andando a lavorare. Perché per quanto possa sembrare strano, anche il nostro, alla fine, è un lavoro».
Un lavoro che mentre lo fa, in diretta, la guardano quattro milioni di persone. Non la spaventa mai?
«Io ci penso a quei quattro milioni. Ci penso che sto entrando in casa loro e che devo stare attento a quello che dico e faccio. E che devo rispettarli sempre. Mi hanno insegnato a farlo Milly Carlucci e Fabrizio Frizzi, con i loro modi garbati nella vita, non solo davanti alle telecamere».
Ha mai pensato di non farcela, che il sogno di vivere di musica non si sarebbe realizzato?
«Non è che l’ho pensato: per due volte ho proprio mollato. Ho cominciato a suonare ancor prima di saper leggere, a cinque anni. La musica è sempre stata la mia vita. Fin da ragazzo ho suonato tantissimo, in diversi gruppi, mandavo le cassettine alle case discografiche e nessuno mi rispondeva mai. Avevo ventiquattro anni e non stava succedendo niente. O meglio, era successo che mi ero sposato a ventuno anni e ormai avevo deciso che era ora di mettere la testa a posto e di piantarla con il sogno della musica. Ho fatto diversi lavori, tutti male. Poi dopo due anni mi ha chiamato la Emi, la più grande casa discografica di allora. Avevano ascoltato quei miei provini e volevano mettermi sotto contratto. Era come se fosse arrivato Dio e mi avesse dato la possibilità di fare tutto quello che sognavo».
E quando è stata la seconda volta che ha mollato?
«Dopo essere uscito dai "Ladri di biciclette". Tra il ’95 e il ’97. Non succedeva proprio niente, non ingranavo. E ho un po’ abbandonato».
Quella volta chi l’ha salvata?
«Mia moglie. Dopo sei mesi di crisi nera, Deanna mi ha preso e mi ha detto: "Tu devi fare quello che sogni, non ti devi preoccupare della nostra vita pratica, a quella ci penso io". L’ho ascoltata, ho fatto un po’ di analisi. E ho capito che non funzionavo perché ero da solo. Io rendo bene se sono attorniato da tante persone. Così ho riformato la mia big band. Ho scoperto il mondo delle convention, dove ti chiamano a suonare e a far divertire la gente. Lì mi hanno visto Panariello e Carlo Conti. E con loro tutto è ripartito. Con loro e con mia moglie, che ha capito la mia anima e l’ha sostenuta anche nei momenti peggiori».
Cosa ha imparato dai suoi momenti difficili?
«Quello che ho imparato dalle mie cadute lo racconto ai ragazzi quando mi chiamano a parlare nelle scuole. Dicono sempre che il treno passa una sola volta nella vita, ma non è così. Il treno passa tutti i giorni e si ferma tutti i giorni. Ma voi dovete farvi trovare pronti, dovete aver studiato, dovete essere preparati a salire. Io penso di esser stato bravo a capire questa cosa. E me lo ha insegnato Gianni Morandi, un gigante. Quando ha avuto il suo momento di difficoltà non si è pianto addosso, ma è andato al Conservatorio a studiare ed è ripartito. "Paolo - mi ha detto - io nella vita ho avuto la fortuna di avere il successo, di perderlo e di tornare ad averlo"».
Ora, finalmente, dopo due anni di pandemia, torna in tour con una band di sedici elementi e un disco nuovo, di cover, con grandi pezzi della musica italiana. Da cosa è nata questa idea?
«Dal fatto che dopo due anni avevamo voglia, anzi, bisogno di andare in giro a suonare e a far divertire la gente. E il pubblico risponde in maniera entusiasta, forse anche perché non è più abituato ad ascoltare questa musica così potente, così suonata, dal vivo, con una grande band».
Come ha scelto i brani da inserire nel disco?
«È stato molto difficile, alla fine ne avevamo una trentina, ma la metà è rimasta fuori, per ora».
Tra i pezzi migliori del disco ci sono "Parlare con i limoni" di Enzo Jannacci e "Viaggi e miraggi" di De Gregori. Come si mettono insieme due canzoni così diverse?
«Ogni brano ha una storia. Jannacci per me era Dio. Sono stato influenzato da lui in ogni maniera possibile. E ogni volta che posso fare un suo pezzo, lo faccio perché lo sento proprio mio. Il pezzo di De Gregori invece lo avevo suonato una volta per Telethon, non lo avevo mai fatto prima. Mia moglie lo sentì e mi disse che era bellissimo, che sembrava proprio un pezzo mio. Le dissi "magari...". Così, per amore, ho deciso di metterlo nel disco».
Da artista abituato a suonare in giro, come ha vissuto questi due anni di stop?
«È stata dura, ma anche un’opportunità. Perché a parte i tre mesi di lavoro per "Ballando con le stelle" avevamo nove mesi di vuoto e li abbiamo usati per suonare, per preparare questo disco e questo tour. È stato come fare un regalo a me stesso per i miei sessant’anni e insieme un modo per far lavorare i ragazzi che suonano con me, da venti o trent’anni. Tra di loro c’è chi ha speso la vita per me».
Lei sente molto la riconoscenza verso gli altri?
«Moltissimo. Verso Milly, Fabrizio, Panariello e Carlo Conti, verso mia moglie, i miei musicisti, il mio pubblico. Sono trent’anni che mi fanno fare il mestiere più bello del mondo. Io avevo letteralmente i buchi nelle scarpe, non per modo di dire: quando ero piccolo camminando cercavo di non alzare troppo il piede perché sapevo che si vedevano i buchi nelle suole. Ma questo è molto bello: io so bene da dove vengo. Io vengo da Salvaterra, un paesino di duemila abitanti, dove tutte le volte che torno per stare con mia mamma mi vedono un po’ come quello che ce l’ha fatta, ma il minuto dopo mi mandano già a quel paese proprio come facevamo quando ero bambino. È bello crescere in un posto così. Una domenica, tanti anni fa, c’era tutto il paese a testa in su sotto una finestra perché qualcuno aveva detto che era arrivato l’attore Enrico Maria Salerno. E allora eravamo tutti lì, tutto il giorno ad aspettare qualcosa, che facesse un saluto. Poi qualcuno disse che non c’era l’attore, ma il suo maggiordomo. Poi, più tardi che non c’era nessuno, ma aveva comprato il palazzo. Poi piano piano ce ne siamo tornati a casa».
Ora è tutto meno sereno e stiamo vivendo l’incubo dell’invasione dell’Ucraina, della guerra e della minaccia in quella parte di Europa che la coinvolge anche personalmente: suo figlio Vladik è da poco tornato a vivere in Bielorussia. Lei che padre è stato?
«Vladik lo abbiamo adottato quando aveva otto anni. Veniva dalla zona di Cernobyl. Fino a un certo momento della sua vita ho voluto proteggerlo in tutto e per tutto. Ho sicuramente fatto tantissimi errori, come tutti i genitori. E poi non potevo certo contestare i suoi sbagli, perché erano gli stessi che avevo fatto anche io. Del resto non è che c’è una scuola per imparare a fare bene i padri».
E adesso che ha trent’anni?
«E adesso sono molto preoccupato. È in Bielorussia, dove è tornato a vivere con la sua fidanzata. Io gli chiedevo nei mesi scorsi di tornare da noi il più in fretta possibile, ma lui era convinto di dover stare lì, dove la sua vita è ora, che non ci sarebbe stato pericolo. Ora ha capito, ma non è facile tornare. Avrei dovuto andare là, prenderlo e portarmelo indietro».
Cosa spera per l’Ucraina?
«Naturalmente in un tavolo per la pace che metta fine alla guerra in otto secondi. Ma non sarà così. Per essere concreti, devo dire che vengo da una tradizione molto precisa, quella partigiana e penso che chi subisce gravissime ingiustizie debba essere messo in condizione di difendersi. Sono molto combattuto, vorrei che ci fossero negoziatori capaci di mettersi a un tavolo, ma nel frattempo non posso vedere persone che vivono nei rifugi: e quelle persone vanno protette».
Da padre sente di aver fatto gli stessi errori che ha fatto suo padre con lei?
«Be’, credo come tutti. Per molte cose ho fatto gli stessi errori di mio padre, ma per tante altre no. Appartenevamo a due generazioni diverse, a mondi diversi. Quello di mio padre era un mondo con regole molto chiare e precise. C’era molta distinzione tra bianco e nero. Io invece ho cercato di insegnare a Vladik il valore della diversità, della complessità, della conoscenza degli altri che ci arricchisce. Certo, mio padre nei miei panni forse sarebbe riuscito a costringermi a venire via da un posto così pericoloso: e se lo avessi fatto, ora avrei Vladik qui».
Suo padre le ha mai imposto una scelta che non condivideva?
«Mio padre non voleva che io facessi il Conservatorio perché non considerava la musica un lavoro vero. Me lo lasciò fare a patto che mi diplomassi anche da elettrotecnico industriale».
Ha fatto in tempo a vedere il suo successo?
«Ai tempi del mio primo successo non mi ha detto niente, ma non mi ha detto niente nemmeno quando è svanito. Quando il successo è tornato, papà si è ammalato. C’è stato un lungo periodo di sofferenza in ospedale, ma ci è servito per dirci tante cose che erano rimaste dentro. E un giorno, poco prima di morire, me lo ha detto cosa pensava: "Bravo, con la storia della musica hai visto più lontano di me"».