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 2022  maggio 15 Domenica calendario

Fra le particelle sonore di Franco Battiato

Franco Battiato ha attraversato molti luoghi differenti lungo l’arco del suo percorso musicale, durato oltre quarant’anni. Tra il mondo delle serate nei locali milanesi (la cui esperienza Battiato non solo non ha mai rinnegato ma, anzi, ha sempre indicato come fondamentale per lo sviluppo della sua personalità artistica) e quello della composizione contemporanea nei teatri d’opera la strada è lunga, ma lui l’ha attraversata con uguale consapevolezza e serietà di intenti, senza darsi inutili gerarchie stilistiche interne e affrontando ogni sfida musicale che gli si presentava davanti con professionalità e leggerezza, evitando sia l’incensamento narcisista proprio di molti cantautori e musicisti pop che la megalomania autoreferenziale di troppi compositori che si muovono nell’ambito classico.
Tuttavia, all’interno di questo ampio cammino, la produzione che va dalla fine del 1974 a tutto il 1978 rimane ancora oggi troppo poco conosciuta. Diversi sono i motivi di questo oblio rispetto al resto dei suoi lavori: indubbiamente non sono mancate (né mancano tuttora) ostilità da parte dei circoli di musica classica nei confronti di un musicista che arriva da esperienze non accademiche, dobbiamo considerare però anche una notevole trascuratezza da parte di Battiato stesso nel conservare e mettere a disposizione di altri musicisti le partiture necessarie a una maggior circolazione delle proprie opere.
Con atteggiamento di autentico musicista d’avanguardia, Battiato rivolgeva la propria attenzione unicamente al presente; ogni progetto valeva per l’occasione in cui veniva creato. Un concerto, un disco, una volta realizzati, venivano superati e si passava alla prossima idea. La possibilità che qualche altro esecutore potesse riprendere quei brani in un ipotetico futuro non veniva minimamente considerata, ciò che importava era solamente l’hic et nunc. Un modo di pensare non dissimile da quello di compositori come John Cage, Terry Riley e Harry Partch, che non hanno mai voluto catalogare per i posteri la propria opera: non a caso Battiato disse in una intervista nel 2009 di considerarsi «per natura l’opposto di Stockhausen, che era un fanatico della storicizzazione dei propri lavori».
Durante gli ultimi venti anni ho sollecitato più volte lo stesso Battiato e alcuni dei musicisti che avevano partecipato alla realizzazione di questi album in modo da poter ritrovare qualcosa di scritto, ma senza risultati: nessuno ricordava che fine avessero fatto i materiali originali e non esistevano neppure delle fotocopie, a parte quella de L’Egitto prima delle sabbie. Nel 2021, il ritrovamento di alcune partiture ha gettato una luce diversa sullo sviluppo autorale dal compositore; prima che questi spartiti tornassero a disposizione, chi si occupava criticamente della produzione degli anni Settanta (esistono diversi libri che dedicano spazio al Battiato sperimentale) doveva farne un’analisi basandosi unicamente sull’ascolto delle registrazioni discografiche. Osservando le partiture, invece, si vedono differenze notevoli tra quella che è la stesura scritta delle composizioni e ciò che effettivamente si ascolta nei dischi: sezioni tagliate, strumentazioni differenti, cambi di tessitura e di articolazione, ordine interno di alcune sezioni modificato: una serie di dettagli che dimostrano il certosino lavoro compiuto da Battiato in studio di registrazione, completando partiture che per lui evidentemente erano un punto di partenza, modificabile durante il confronto reale con i musicisti che le avrebbero interpretate. Il cammino disegnato da questi lavori tra il ’74 e il ’78 è molto vario dal punto di vista stilistico, ma saldamente unificato dalla coerenza del progetto iniziale dell’autore: esplorare a fondo l’universo sonoro degli strumenti acustici. Battiato abbandona il suo amato sintetizzatore VCS3 con cui ha realizzato i primi dischi da solista, elimina qualsiasi strumento legato al mondo del rock e si concentra in modo continuo, quasi maniacale, su elementi selezionati con cura. Il pianoforte, la voce e il violino sono quelli che lo interessano maggiormente e sui quali concentra come un raggio laser tutta la propria attenzione. Non estraneo a questo interesse è l’incontro con musicisti di grande caratura, che lo spingono in questa direzione: Antonio Ballista in primis, ma anche Alide Maria Salvetta, Bruno Canino, Roberto Cacciapaglia e Giusto Pio. Un piccolo gruppo di fedelissimi amici che condivide la fiducia nelle capacità di Battiato come autore di musica cameristica, anche quando il mondo della musica classica sembra respingerlo con indifferenza e talvolta acribia. Molti di questi esecutori lavoravano abitualmente con figure di primo piano dell’avanguardia di quegli anni come Luciano Berio, Salvatore Sciarrino, Paolo Castaldi, Luis De Pablo, Niccolò Castiglioni, Franco Donatoni: il fatto che gli stessi interpreti di questi autori non guardassero a Battiato come a un parvenu ma come a un compositore da prendere sul serio deve essere stato indubbiamente un segnale importante di incoraggiamento per il musicista siciliano. Una delle caratteristiche principali della personalità di Battiato è l’irrequietezza: se guardiamo il suo catalogo, vediamo come egli non si fermasse mai troppo a lungo su un particolare stile compositivo e che una volta esplorate a fondo le caratteristiche di ciò che stava sperimentando passava rapidamente a occuparsi di altro.
Non stupisce, dunque, che questo periodo, per quanto piuttosto breve, abbia registrato un gran numero di iniziative; oltre alla realizzazione di cinque album solisti infatti ci sono anche iniziative teatrali, esibizioni da solo e in gruppo, arrangiamenti e collaborazioni con altri musicisti: in questi anni la sua curiosità appare instancabile. Eppure allo stesso tempo egli si sente isolato dal resto del mondo culturale e, dopo pochi anni, ritiene di aver realizzato tutto quello che gli era possibile nel campo dell’avanguardia. Così, abbandona il mondo della sperimentazione classica e comincia a riavvicinarsi alla canzone, portando con sé il suo bagaglio di esperienze per proseguire i suoi esperimenti. Quando, diversi anni dopo, incomincerà a interessarsi nuovamente al mondo della composizione classica, lo farà principalmente attraverso grandi forme: opera lirica, balletto, melologo, musica sacra. Siamo molto lontani dal laboratorio in cui venivano testati al limite delle loro possibilità gruppi di piccoli strumenti: lavori come Genesi e Gilgamesh richiedono grandi masse corali e orchestrali spesso integrate dall’elettronica, diversi solisti vocali, allestimenti scenici complessi e molto costosi (nel caso degli ologrammi utilizzati nella sua ultima opera Telesio i costi, all’epoca della prima esecuzione nel 2011 al Teatro Rendano di Cosenza, furono quasi proibitivi): anche le strutture musicali di questi lavori successivi sono completamente diverse, Battiato dipinge su tele di grandi dimensioni mentre queste opere degli anni Settanta hanno un carattere più intimo, nel caso di un lavoro come Cafè Table Musik quasi scopertamente autobiografico. Del resto il Battiato degli album usciti per l’etichetta Dischi Ricordi lavorava sugli armonici, ascoltando frequenze estreme: aveva bisogno di esaminare al microscopio ogni più minuta particella sonora per trasformarla, e di conseguenza utilizzare pochi strumenti per poterlo fare nel dettaglio. Le sue partiture per organici orchestrali, come ad esempio la Messa Arcaica, si muovono invece utilizzando gesti solenni, di ampia campitura, con lunghe frasi all’unisono che si imprimono rapidamente nella memoria. Il suo linguaggio compositivo ha sempre rifiutato l’atonalità e il distaccarsi completo dalla tradizione che molti compositori italiani e stranieri hanno utilizzato dal dopoguerra in avanti, ma nello stesso tempo non si è fatto irretire da nostalgie o linguaggi che ammiccassero al pubblico attraverso l’utilizzo di forme troppo familiari, il suo utilizzo della tonalità o dell’armonia non ha nulla a che vedere con quello della tradizione ottocentesca; lontanissimo da lui anche l’atteggiamento ironico dell’estetica postmoderna che vedeva il passato musicale come un grande museo/soffitta in cui rovistare e sovrapporre a piacimento reperti, a seguito della fine della Storia: la sua musica è fatta di elementi vivi, non di maschere o simulacri.
La fiducia di Battiato nelle possibilità espressive di elementi ormai abbandonati o considerati sorpassati dal modernismo è incrollabile, l’indipendenza di pensiero sembra far parte del suo DNA. In questo senso egli può essere considerato un fratello spirituale di compositori come John Tavener o Arvo Pärt, anche se le sue composizioni seguono traiettorie estetiche molto differenti da quelle di questi autori.