Il Messaggero, 15 maggio 2022
Storia dello stadio Olimpico di Roma
Il 17 maggio 1953 fu inaugurato a Roma il nuovo stadio Olimpico. Il Paese usciva da una catastrofica sconfitta militare, da una lacerante guerra civile, da una distruzione pressoché totale di infrastrutture pubbliche e private, e da un’ingessatura burocratica che aveva rallentato ogni forma di sviluppo. In effetti la progettazione dell’impianto risaliva al ventennio fascista, ma l’esecuzione era stata bloccata da varie interferenze, dalla mancanza di fondi, e ovviamente dalla guerra.
LA RICOSTRUZIONE
Ma tre fattori avevano favorito la rinascita da queste rovine. Prima di tutto l’alleanza con gli Stati Uniti e le generose concessioni del piano Marshall, che avevano ridato al Paese fiato, speranza e denaro. In secondo luogo la presenza di personalità politiche di eccezionale cultura e visione strategica, da De Gasperi a Saragat, da Einaudi a Togliatti, che pur nelle diverse e anche opposte ideologie, convergevano verso una ricostruzione materiale e morale complessiva. E infine l’inesauribile vitalità degli italiani, desiderosi di riscattarsi, attraverso le libere istituzioni, da un ventennio di dittatura e da un quinquennio di disastri. La corsa al raggiungimento di quello che sarebbe stato definito il miracolo economico esigeva anche dei simboli. E il nuovo stadio Olimpico fu probabilmente, in quegli anni, il più significativo.
IL PROGETTO
Fu realizzato in meno di un triennio, su progetti dell’ingegner Carlo Roccatelli e degli architetti Cesare Valle e Annibale Vitellozzi. Il debutto sportivo non fu dei più fortunati. La Nazionale di calcio venne sconfitta dall’Ungheria con un umiliante 3 a 0, ma va detto che i magiari erano allora i migliori giocatori d’Europa e forse del mondo, guidati dal roccioso Ferenc Puskas, il colonnello dell’esercito, che sarebbe emigrato dopo la repressione dei russi a Budapest nel 56 e avrebbe costituito, nel Real Madrid, la macchina da goal più strepitosa di tutti i tempi, con la classe di Alfredo di Stefano e la velocità di Francisco Gento. Il calcio italiano stava comunque attraversando un periodo di crisi, dopo i fasti di Vittorio Pozzo degli anni 30. Con le Olimpiadi del 1960 anche questo sport avrebbe conosciuto una rinascita.
Quando i giochi si aprirono, gli italiani ammirarono con orgoglio autentico un gioiello di architettura e di imponenza da sovrastare i mitici mausolei di Wembley e degli altri vecchi stadi continentali. Quelle furono definite le Olimpiadi più belle della storia moderna, e non fu una fanfaronade patriottica. Il contorno in cui si svolsero - la via Appia per la maratona, la basilica di Massenzio per la lotta, il palazzetto Nervi per le altre discipline e naturalmente l’ineguagliabile paesaggio romano - costituì un unicum mai più eguagliato dalle successive manifestazioni. Ma anche le prestazioni fecero un salto di qualità pari a quello degli aerei a reazione rispetto a quelli a elica. L’uomo aveva già infranto, con il tedesco Armin Hary, il muro dei 10 secondi, e anche se a Roma il miracolo non si ripeté la velocità collettiva ebbe un’impennata.
CAMBIO DI STILE
Il nostro Livio Berruti volò sulla doppia distanza, stracciando i più noti concorrenti d’oltreoceano, con tempi che ancora oggi sarebbero qualificanti per le finali. Il pugilato sfornò campioni che ne avrebbero segnato la storia, dal nostro Nino Benvenuti fino a Cassius Clay, il più grande di tutti. Il nuoto espresse un radicale cambio di stile, sostituendo le bracciate un po’ goffe di Johnny Weissmuller (il futuro Tarzan) con le più eleganti bracciate degli australiani e dei californiani. La gazzella Wilma Rudolf entrò nella leggenda, e l’equitazione italiana, con i fratelli D’Inzeo, fece man bassa di medaglie nelle gare individuali e a squadre.
LA STRAGE DI MONACO
A distanza di oltre sessant’anni, tutti questi nomi si ricordano più di quelli che si sono succeduti a Tokio, a Los Angeles e a Seul. L’orrenda strage di Monaco del 72, ad opera di terroristi palestinesi, aveva comunque già gettato un’ombra cupa sul gioioso ricordo di quella inimitabile festa romana.
Mai come allora l’Italia si sentì al centro del mondo. L’autostrada del Sole, costruita in pochi anni perforando le montagne con plurime gallerie e scavalcando le valli con arditi viadotti, collegò e riunì regioni divise per secoli dagli ostacoli della natura, dalle risse dei dominatori e dalle diversità delle tradizioni culturali. L’Arlecchino e il Settebello, treni avveniristici di alta velocità, di elegante struttura e di raffinata accoglienza ci furono invidiati, e copiati, dai paesi più ricchi. Roma e Venezia costruirono aeroporti colmando paludi e lagune, sollevando qualche scandalo ma allargando a vaste classi sociali quella forma di trasporto, fino ad allora patrimonio esclusivo di divi, politici e ricconi.
L’INNO NAZIONALE
Dietro l’ esaltazione collettiva scatenata quando allo stadio Olimpico risuonava il nostro Inno nazionale, si intuivano tutti gli elementi di quella nuova energia, compressa da decenni di dittatura, di stenti e di umiliazioni, avviata verso traguardi impensabili. Quello più prestigioso, raggiunto per merito soprattutto di Luigi Einaudi, fu il premio attribuito da una giuria internazionale alla nostra lira, gratificata del titolo di moneta più salda dell’Occidente. La storiografia marxista ripudia sprezzante ogni interferenza passionale nello svolgersi degli eventi, perché ne ammette solo le cause strutturali ed economiche. Ma chiunque legga la Storia sgombro da illusori pregiudizi fanatici, sa che il naso di Cleopatra non fu forse determinate, ma ebbe la sua importanza. E che se la vittoria di Bartali al Giro di Francia non sventò la rivoluzione dopo l’attentato a Togliatti, tuttavia placò gli animi e convertì l’ira in entusiasmo.
I BAR PROLETARI
Così furono le manifestazioni nello stadio Olimpico. Dagli spalti gremiti di fortunati spettatori fino agli schermi televisivi delle abitazioni facoltose e dei bar proletari, si assistette a un’esultanza straripante. Essa costituiva insieme l’effetto e la causa di un periodo aureo che mai avevamo conosciuto, e che oggi sembra irreale, nell’assopimento dell’atrofia politica e nell’allarmante rassegnazione a un generale declino. Forse non è un caso che si stia progettando oggi di costruire un nuovo stadio (della Roma), oltre a questo vecchio impianto, testimone decaduto delle glorie dimenticate. Ma poiché nella storia dell’uomo non vi è nulla di predeterminato in modo irreversibile, possiamo sempre sperare che se ne verrà costruito uno nuovo, esso costituisca il simbolo di una nuova energia creatrice che ci riporti al vigore e all’entusiasmo di quei momenti solenni, quando sul podio il tricolore svettò al primo posto ben quindici volte, preceduto soltanto dall’immensa Unione Sovietica e dai ricchissimi Stati Uniti.