La Stampa, 15 maggio 2022
Lapidata e bruciata per blasfemia in Nigeria
Quanto può far paura la libertà di parola e di critica ancor più se tocca una certa fede religiosa?
Maledettamente e violentemente troppo, come è stato testimoniato nei pochi secondi del video girato sui social sulla lapidazione brutale e feroce che ha finito per lasciare senza vita il corpo di Deborah Samuel, ma non l’odio, il disprezzo e la barbarie che continuava a infierire ancora e ancora, perché non era abbastanza.
Il suo corpo che giace a terra, vestito rosso, volto irriconoscibile per le botte, il sangue. Loro, tutti uomini, che non ne hanno ancora abbastanza, minuti di bastoni e pietre colpiscono quel che rimane senza più la parola, il lamento, la pietà.
Perché se Allah è clemente e misericordioso, come si legge in ogni Sura del Corano, alcuni suoi fedeli hanno deciso di non esserlo. E allora, se non è sufficiente, c’è ancora un pezzo da aggiungere in questo orrore, bruciare ancora quel che rimane della carne di Deborah Samuel.
Questo è il prezzo pagato in Nigeria, da una studentessa cristiana accusata di blasfemia, perché aveva pensato di avere la libertà di pubblicare su WhatsApp un commento vocale ritenuto poi dagli studenti musulmani del suo stesso ateneo, offensivo nei confronti del profeta Maometto.
Barbarie, si dirà da queste parti e non solo, perché per fortuna la maggioranza dei musulmani nel mondo non sono e non possono essere identificati con quei mostri. Però non ce la caviamo girando le spalle senza fare un passo avanti che diventa sempre più urgente.
Perché al di là della coscienza, del pensiero, della pluralità storica dei singoli musulmani nelle varie aree del mondo, bisogna anche dire che persiste ancora una lettura estremista e per nulla clemente su molte questioni, una delle quali è la blasfemia. In Afghanistan, Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Somalia, Pakistan è prevista la pena di morte per il reato di blasfemia. E non si tratta mica di bestemmiare, perché il comportamento blasfemo, secondo i fondamentalisti islamici, è anche e soprattutto l’esibizione della libertà di pensiero.
Infine, se in alcuni Paesi si rischia la morte, prevista peraltro per legge, in altri Paesi ritenuti più moderati c’è sempre il carcere ad attendere chi si macchia di blasfemia.
Fatte queste premesse, come può il musulmano marocchino, tunisino, Giordano o occidentale lavarsene le mani, guardando quanto accaduto in Nigeria come fatto che non lo riguarda, solo perché in casa propria mai si arriverebbe a tanto?
Il fondamentalismo islamico si nutre dell’alibi di una interpretazione estremista e radicale che esiste, è autorevole e istituzionalizzata già nella stessa culla dell’Islam, l’Arabia Saudita; e fin quando non si sradica dalla radice con iniziative eclatanti e di rottura, la barbarie continuerà a nutrirsi indisturbata, proprio perché le varie interpretazioni, anche radicali continuano ad avere legittimità con i loro esponenti seduti nella stessa casa islamica.
Fin quando non si romperà questo meccanismo, nessun buon musulmano può sentirsi al sicuro, e nessuna persona non musulmana potrà sentirsi pienamente al sicuro nella casa dell’Islam. E non ci si nasconda dietro al vittimismo di discriminazione o generalizzazioni, perché l’amara verità è che i musulmani continuano ad essere vittime di loro stessi, nel momento in cui, ancora oggi non sono riusciti a fare quel passo avanti fondamentale di mettere fuori legge tutta quella barbarie che si continua a difendere nel nome di Dio, a partire dalla libertà di parola.