Enrico Franceschini per www.repubblica.it, 14 maggio 2022
ANTISEMITISMO (RUSSO) SENZA LIMITISMO – IN RUSSIA L’ODIO VERSO GLI EBREI AFFONDA LE RADICI NELL’IMPERO DEGLI ZAR: CATERINA LA GRANDE LI AVEVA RELEGATI IN UN REGIONE A CONFINE CON LA CINA. NEL 1821 SCOPPIARONO I PRIMI “POGROM” DOPO L’ASSASSINIO DI ALESSANDRO II (SECONDO UNA TEORIA DELLA COSPIRAZIONE LA COLPA ERA DEGLI EBREI) – STALIN LI CONFINÒ E BREZNEV FECE ARRESTARE DAL KGB COLORO CHE CHIEDEVANO DI POTER LASCIARE L’URSS PER ANDARE IN ISRAELE – E PER ALCUNI I DISCORSI SUI NAZISTI E PRESUNTI GENOCIDI DI PUTIN SONO SOLO PER BANALIZZARE LA SHOAH… -
L'antisemitismo di cui Israele ha immediatamente accusato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov per la sua dichiarazione alla rete televisiva italiana Rete 4, "anche Hitler aveva sangue ebraico", è stato una macchia costante nella storia della Russia. Dall'impero degli zar all'Unione Sovietica comunista, per finire con la Russia nazionalista di Putin, gli ebrei sono stati perseguitati, discriminati e guardati con sospetto nel Paese più grande del mondo.
Non a caso "pogrom", l'espressione oggi usata in tutte le lingue per definire una violenta campagna per distruggere una popolazione o un'etnia, è un termine russo: i primi pogrom contro gli ebrei scoppiarono nel 1821 a Odessa, proseguendo per tutto l'Ottocento, in particolare dopo l'assassinio dello zar Alessandro II, di cui una teoria della cospirazione diede la colpa agli ebrei.
La repressione staliniana Ma è sotto Stalin che l'antisemitismo raggiunse l'apice in Unione Sovietica. Il dittatore ricorse al pregiudizio contro gli ebrei nella sua lotta contro Trotskij, che era di origine ebraica. Fu Stalin a creare una regione per gli ebrei, un po' come aveva fatto Caterina la Grande, situata però nell'Estremo Oriente russo, al confine con la Cina.
Nonostante siano state le truppe russe a liberare Auschwitz e altri lager, durante la Seconda guerra mondiale, poiché l'antisemitismo era associato con la Germania nazista, la Russia staliniana usò il termine "antisionismo" per le sue campagne contro gli ebrei.
Dopo il 1948 l'antisemitismo riprese in Russia con rinnovato vigore, durante la cosiddetta campagna contro "il cosmopolitismo senza radici", in cui furono uccisi o imprigionati numerosi scrittori, pittori e intellettuali di origine ebraica, una campagna culminata nel 1952 nel presunto "complotto dei medici", in cui un gruppo di medici, quasi tutti ebrei, furono sottoposti a un processo farsa con l'accusa di avere tentato di assassinare Stalin.
Le cose non migliorarono per gli ebrei sovietici sotto Krusciov, che pure aveva rivelato e condannato i crimini dello stalinismo. Con l'arrivo al potere di Breznev e dopo la vittoria di Israele nella guerra dei Sei Giorni nel 1967, gli ebrei di Russia cominciarono a premere per ottenere il permesso di emigrare nello Stato ebraico. I primi a chiederlo venivano arrestati dal Kgb, interrogati e internati in ospedali psichiatrici.
Ma dietro forti pressioni internazionali e dopo lunghi negoziati con gli Stati Uniti, le porte cominciarono ad aprirsi per chi se ne voleva andare. Tra il 1970 e il 1988, 291 mila ebrei sovietici ricevettero l'autorizzazione a emigrare da quello "stato prigione" che era l'Unione Sovietica comunista: dovevano rinunciare alla cittadinanza sovietica e perdevano tutti i loro averi, ma partivano lo stesso, 165 mila emigrarono in Israele, 125 mila negli Usa.
Il flusso verso Israele Nel 1989 Mikhail Gorbaciov, portando avanti le riforme della sua perestrojka, tolse ulteriori restrizioni all'emigrazione: soltanto quell'anno emigrarono 71 mila ebrei sovietici. Dopo il crollo dell'Urss, il flusso verso Israele diventò ancora più massiccio: tra il 1989 e il 2006, un milione e mezzo di ebrei russi lasciarono l'Urss, la maggior parte dei quali con destinazione Tel Aviv: un fenomeno che ha inciso profondamente sulla società israeliana, dove oggi gli ebrei dell'ex-Urss sono circa il 10 per cento della popolazione.
Tra il fatto che gli ebrei se ne erano andati in massa e la nascita di una pur fragile democrazia, dopo il crollo dell'Urss nel 1991 per un po' sembrò che l'antisemitismo in Russia fosse al tramonto. Vari oligarchi legati prima a Boris Eltsin, il successore di Gorbaciov, e poi a Vladimir Putin, sono del resto di origine ebraica, come Roman Abramovich, il petroliere che dopo avere perso il diritto di risiedere a Londra a causa delle sanzioni ha preso cittadinanza israeliana e passa in Israele parte del suo tempo.
L'antisemitismo rinasce con Putin Ma il mostro antisemita è risorto con Putin. Il presidente ha concesso libertà di religione, anche agli ebrei. I gruppi nazionalisti che lo appoggiano, tuttavia, esibiscono slogan e un'ideologia denigratoria nei confronti degli ebrei. Putin ha avuto amici ebrei fin dall'infanzia e con alcuni è ancora strettamente legato.
Inoltre giustifica l'invasione dell'Ucraina con la necessità di "denazificare" l'Ucraina. Tuttavia il filosofo Jason Stanley, docente a Yale, afferma che è necessario ribaltare il discorso. È Putin, ha spiegato Stanley in un’intervista al New York Jewish Week, a rappresentare oggi il baluardo dell'antisemitismo. I suoi discorsi sui nazisti e presunti genocidi in cui si banalizza la Shoah rappresentano infatti una porta aperta all’antisemitismo e un pericolo per gli ebrei: "Il regime di Putin è un regime nazionalista cristiano, e il nazionalismo cristiano è una minaccia per gli ebrei ovunque. Non credo che stia cercando di convincere qualcuno.
Penso piuttosto che stia cercando di deridere il linguaggio della Shoah”. Per Stanley questa retorica rappresenta “l’antisemitismo dell’Europa orientale” che “prende la forma nel dire che noi ebrei abbiamo rubato la narrazione del vittimismo”. Con questi discorsi il presidente russo “prende in giro gli ebrei”. La sua tesi, continua Stanley, è che “le vere vittime siano i russi cristiani in Ucraina orientale: quelle sono le vittime del genocidio, non il discendente di sopravvissuti alla Shoah, il leader ebreo dell’Ucraina”. Questo, spiega il filosofo, figlio a sua volta di sopravvissuti, è uno dei problemi principali: “Il nazionalismo cristiano è antisemita fino al midollo”.
In un articolo pubblicato dal Guardian, il professor Stanley amplia la sua riflessione e traccia un parallelo con il fascismo. Quest’ultimo, scrive, è “un culto del leader, che promette la restaurazione nazionale di fronte a presunte umiliazioni commesse da minoranze etniche o religiose, da liberali, femministe, immigrati e omosessuali. Il leader fascista sostiene che la nazione è stata umiliata e la sua mascolinità minacciata da queste forze.
Deve riconquistare la sua antica gloria (e spesso il suo antico territorio) con la violenza. Egli si offre come l’unico che può ripristinarla”. A essere indicati come primo agente nemico di questa restaurazione sono gli ebrei, sottolinea il filosofo. Sarebbero loro in questa visione distorta a utilizzare “gli strumenti della democrazia liberale, dell’umanesimo laico, del femminismo e dei diritti dei gay” per introdurre “decadenza, debolezza e impurità”.
Contro gli ebrei si scaglia così il fascismo che giustifica la sua violenza “offrendo di proteggere una presunta identità pura religiosa e nazionale dalle forze del liberalismo. In occidente, il fascismo si presenta come il difensore della cristianità europea contro queste forze, così come la migrazione musulmana di massa. Il fascismo in occidente è quindi sempre più difficile da distinguere dal nazionalismo cristiano”.
Ovvero da quello promosso da Putin, sostiene Stanley, che si autoidentifica come “leader globale del nazionalismo cristiano, ed è sempre più considerato tale dai nazionalisti cristiani di tutto il mondo”. In conclusione, se non ci sono più le persecuzioni etniche dell'era di Stalin, succede ancora di sentire i russi parlare male degli ebrei: "evrei", ebreo, o "zhid", giudeo, vengono usati nel linguaggio comune come insulti. Nell'affermare che "anche Hitler aveva sangue ebraico", il ministro Lavrov ha in fondo semplicemente rivelato un sentimento antisemita che appartiene alla storia della Russia.