Robinson, 14 maggio 2022
Biografia di Antonio Biasiucci raccontata da lui stesso
Dal profondo di se stesso salgono le parole di Antonio Biasiucci. Arrivano da quella grotta occulta e umida che qualcuno chiama inconscio o passato. Definire Antonio fotografo è riduttivo. La sua materia non nasce da modelli preesistenti, ma arriva direttamente dal caos. Insegna all’Accademia delle Belle Arti a Roma. Gli piace insegnare. Tiene un laboratorio che definisce «irregolare», dove un gruppo di ragazzini che ha scelto personalmente, proverà a trovare un senso al percorso fotografico intrapreso. Ma più di tutto gli piace dare corpo alle proprie visioni. È timido, coerente, tranquillo. Fuma sigarette che le mani rollano con pazienza. E la pazienza è il suo modo di guardare alla vita come se la vita fosse un giocattolo da montare e smontare lentamente. Ho appena visto una sua mostra alMagazzino, una galleria romana. Mi colpisce la forza metamorfica che imprime alle immagini. È come se ogni volta toccasse l’essenza stessa della realtà. Dice di sé: «Non nasco fotografo, ma sono figlio di un fotografo, con tutto l’odio e l’amore che un’eredità del genere mi ha trasmesso».
Cosa avresti voluto fare nella vita?
«Non lo so, non che avessi le idee chiare. A un certo punto andai via dal paesello dell’alto casertano, destinazione Napoli. Mi iscrissi a Scienze politiche. La cosa più distante dal mio mondo. Pensavo di meritarmi un’altra vita. Diversa da quella che avevo fatto. Ero così dentro al malessere procurato dalle tensioni familiari che qualunque cosa avessi scelto mi sarebbe apparsa come un’ancora di salvezza. Misbagliavo».
Quanto ti sbagliavi?
«Di parecchio. Napoli era la città sognata. Pensavo agli effetti benefici di quella terra che sembra tollerare tutto e tutto accogliere. Ma venni colto da una crisi di identità. Improvvisamente non sapevo più chi ero.
Somatizzavo il disagio. Non riuscivo neppure a salire su un autobus. La gente mi appariva estranea, ostile.
Desideravo nuovamente scappare. Ma dove? Decisi di fare qualcosa che mi sorprese: acquistai una macchina fotografiche da reporter, diversa dalle Rolleiflex che usava mio padre. Cominciai a fotografare per me, e per allontanare lo sconforto che provavo».
Venisti a patti col mondo di tuo padre.
«Venni a patti col suo fantasma. Più che col suo mondo. Faceva il fotografo di matrimoni. Si era costruito una reputazione. Era richiesto anche dai paesi vicino al nostro. La coppie amano ricordare alcuni momenti delle proprie nozze: in chiesa, tra i parenti, davanti alla torta o davanti allo sfondo di un tramonto. Immagini per lo più patinate che percepivo dolciastre e false. Ma lui no. Lui si divertiva. Attraverso le foto papà prolungava l’istante felice degli sposi. Il lavoro era tantissimo e io dovevo fargli da assistente, sviluppando le foto nella camera oscura. Cercai di scappare e lui mi chiuse a chiave. Crebbi odiando quello che ero costretto a fare».
Come hai scoperto che ciò che odiavi era anche quanto avresti imparato ad amare?
«Fotografando tutto ciò che fino a quel momento avevo rinnegato. Immagini di pastori, interni di case contadine, dettagli di un mondo dal quale mi eroallontanato. Ma il punto era come restituire tutto questo senza farlo apparire folcloristico o, peggio ancora, retorico. E mi fu di aiuto l’incontro a Napoli con Antonio Neiwiller, un personaggio straordinario, cresciuto nell’area del teatro napoletano di avanguardia degli anni Settanta e morto troppo giovane, a 45 anni, per poter dispiegare interamente il suo talento».
In che modo ti è stato di aiuto?
«Antonio fu regista teatrale, attore e drammaturgo.
Ricordo che andai a un suo spettacolo. E nonostante l’opera fosse complessa e difficile sentii che mi apparteneva. Ero timidissimo e inesperto ma avvertivo che quella recitazione scarna, ironica, buia era un’occasione per aprirmi alla vita. Fu una rivelazione. Divenni amico di Neiwiller e decisi di frequentare il suo laboratorio teatrale».
Volevi fare l’attore?
«No, almeno non credo. Volevo seguire il suo sguardo, vedere dove si posava la sua intelligenza. Imparare un metodo. Pensava che il nostro fosse il tempo della barbarie e delle macerie e che andasse affrontato senza restarne prigioniero. Ricordo che alla fine del seminario con Neiwiller mi chiusi in una stalla con cinque vacche. Potrà sembrare stravagante. Ma l’idea era di tornare alle origini del mio mondo contadino e fotografare quell’ambiente nel modo più semplice possibile. In quel preciso momento compresi che avevo il dono della fotografia e quegli animali sembravano messi lì perché io lo dimostrassi».
Le vacche erano parte della tua infanzia?
«Non la mia infanzia ma l’infanzia di tutti i ricordi che si agitavano nella mia mente. Rimasi circa un anno a lavorare in quella stalla. Non dovevo spezzare il filo che mi portava dritto alle mie radici. Cominciai a vedere le cose in modo diverso sperimentando più punti di vista. Quelle cinque vacche che presi a fotografare in modo naturale, progressivamente divennero altro rispetto al punto di partenza».
Che vuoi dire?
«Trasformai quei corpi animali, seguendo il principio della metamorfosi. Pensavo all’animale sacro, alla “grande madre” e immaginavo che la vacca potesse essere tutt’uno con il Cosmo. Quel processo di trasformazione mi stava mettendo davanti all’inaspettato e sentivo che si era stabilito un dialogo invisibile tra le visioni del mio mondo interiore e le immagini che mi apparivano di volta in volta diverse».
Come vivi la relazione con l’inaspettato?
«L’inaspettato è alla base della meraviglia e non sai se arriva oppure no. Magari sei lì in attesa, per giorni o settimane, e quella roba enigmatica e sacra non bussa alla tua porta. Alcune attese sono dei fallimenti e c’è poco da fare, poco da disperarsi. È così. Ma quando senti che l’inaspettato è giunto, allora il tuo lavoro metamorfico ha inizio e potrebbe essere interminabile».
Potresti legarti a un tema senza mai abbandonarlo?
«In teoria è possibile, è accaduto con le foto sui “Vulcani”, mi sono dovuto fare violenza per decidere a un certo punto che quel lavoro era finito. Avrei potuto continuarlo per tutta la vita».
Che cosa aveva di così potente da non lasciarti andare?
«Potrei dirti la materia incandescente. Tutto era nato dal direttore dell’osservatorio vesuviano che cercava un giovane fotografo in grado di documentare l’attività di alcuni ricercatori. Ci furono delle incomprensioni e il direttore mi licenziò, salvo poi riprendermi alcuni mesi dopo per occuparmi degli aspetti divulgativi intorno ai vulcani. Così per diecianni ho avuto a che fare con alcuni elementi primari della natura. Le cose che vedevo da quel luogo mi permettevano di distinguere l’effimero dal fondamentale».
Prova a spiegare la distinzione.
«Per molti la fotografia è l’esaltazione dell’istante. Ciò che “rubi” in un preciso momento di una storia visiva riveste il valore della testimonianza. Pensa al fotoreporter o alla miriade di persone che grazie al digitale si illude di fissare la narrazione del mondo. In realtà, stanno solo esaltando l’effimero».
Un altro modo per dire inaspettato?
«L’inaspettato ha una durata interiore che l’effimero non possiede. Mi rifiuterei di fotografare l’effimero.
Perché so che, per quanto sia intenso, bello, straordinario, posso solo viverlo».
Come fosse un attimo fuggente?
«Come l’istante che acceca lo sguardo. E sta qui il motivo per cui nel mio lunghissimo lavoro sui vulcani ho quasi sempre evitato di documentarne l’eruzione».
Perché?
«Perché in ogni eruzione c’è una dismisura che l’occhio non può colmare. Qualcosa di eccessivo che la macchina fotografica può solo banalizzare. Ed è la ragione per cui lavorando sui vulcani mi sono limitatoai piccoli mutamenti della materia. Le mie foto non raccontano una storia, non la rappresentano, almeno non in prima battuta. Le mie foto introducono a un processo di conoscenza imprevedibile e testimoniano dei continui mutamenti della materia che affronto. I soggetti fotografabili li scelgo per ridurli alla loro essenza».
Mi viene in mente uno dei tuoi ultimi lavori dedicato ai ceppi degli alberi. Non sembrano neanche più parti di un tronco, ma forme libere che si reinventano.
«Le mie foto non sono soggette al tempo, sia esso esterno o interiore. Sono contemporanee ma cadono fuori dall’attualità. Sono metafore inattese che escono improvvise dalla scomposizione della materia. Da un ceppo d’albero posso ricavare immagini impensabili, inattese appunto, basta non limitarmi alla sua semplice rappresentazione».
Quando hai accennato al dono che hai ricevuto era a questo che ti riferivi?
«In un certo senso è così. Ho sempre pensato che quando ricevi un dono devi essere in grado di custodirlo. Negli anni ho rifiutato allettanti offerte per fare il fotografo di moda o pubblicitario. Ma se avessi accettato non sarei stato coerente, soprattutto nonavrei protetto quel dono. E magari sarei ripiombato in quella crisi di identità che stava per travolgermi a Napoli. Ricordo ancora il terrore e l’angoscia con cui somatizzavo le malattie di mio padre».
Alla fine questo padre è alla base di tutto il tuo lavoro.
«Non era stato solo un fotografo di matrimoni. Fu tra i primi in Italia a occuparsi di agricoltura biologica. Era un visionario. Ma anche un folle. Avevamo un pescheto, sul quale volle sperimentare i principi biodinamici. Nel giro di pochi anni il pescheto inaridì. Perdemmo soldi e raccolto. Desiderava essere ammirato, anche nei fallimenti. La prima volta che si ammalò avevo sei anni. Ebbe vari ictus che costrinsero me e mia sorella a prenderci cura di lui.
Quando stette un po’ meglio fummo mandati in collegio. Finii a Bari e mia sorella a Pisa. Avevo otto anni, ero il più piccolo del collegio. I più grandi mi vessarono e mi presero in giro per la mia educazione eccessivamente cattolica. Tenevo un diario che avevo chiamato “Gesù”».
Cosa scrivevi?
«Pensierini edificanti, ma anche disperati per il modo in cui venivo trattato. Poi stracciai tutto. Per non affogare, per non soccombere, divenni un bambino ribelle. Fui espulso dal collegio, trasferito a Napoli e anche da lì cacciato via. Tornai al paese, a Dragoni. Nel frattempo mio padre si era scoperto fotografo. Temoche non abbia mai capito molto di me. Nonostante questo gli ho voluto bene. Col tempo ho accettato la sua stravaganza così estranea al mondo elementare fatto di sudore contadino. Non eravamo una famiglia agricola. Ma la volontà di sperimentare lo spinse ad allevare conigli e tacchini. Voleva che portassi i tacchini al pascolo come fossero un gregge di pecore.
E io mi vergognavo per tutta quella stramberia esibita. Ti racconto queste cose non per farmi compatire ma perché credo che dai suoi fallimenti sia uscito qualcosa di importante per me».
Cosa?
«La timidezza, la paura, i sintomi di non essere poi così diverso da lui. Salvo accorgermi che eravamo le due estremità di un ponte. Uniti, certo. Ma anche opposti. Irrimediabilmente lontani. Lui è stato la dismisura, da guardare come l’eruzione continua di un vulcano che da un momento all’altro può incenerire. Qualcosa di bello e di terribile, da cui tenersi distanti. Ecco, nelle migliaia di foto che ho stampato per lui, non ce ne è nessuna che lo riguardi davvero. Nessuna dove sia felice. Nessuna dove sia restata la presenza di qualche giovinezza. C’è solo l’ombra della sua inarrestabile decadenza. Quella pellicola che tante volte ho impressionato, è come bruciata. Non ne conservo traccia se non da qualche parte della memoria».