La Stampa, 14 maggio 2022
Gabry Ponte: «Mai vergognarsi sul palco»
Abituato a far ballare milioni di persone, Gabry Ponte non si stupisce certe dell’effetto Eurovision. Deejay, produttore, partito da Torino si è ritrovato a muovere folle all’estero e ora, da Londra, si gode le immagini della sua città che segue il ritmo.
Perché questo show è diventato così popolare?
«La musica è sempre stata globale, prima delle piattaforme aveva dei limiti di distribuzione, quello che succedeva in Italia restava in Italia, salvo grandi eccezioni. Ora no e quindi anche noi abbiamo affinato il tiro. Dopo alcuni scivoloni siamo arrivati fino ai Måneskin».
Il suo rapporto con l’Eurovision?
«Innamoramenti occasionali, via social. Come sempre mi lascio intrigare dalla musica. Ricordo il primo approccio con un gruppo che si chiamava Lordi: finlandesi, vestiti da mostri. Era il 2006. Da lì almeno una sera me la sono sempre guardata».
Esiste un sound da Eurovision?
«Non credo. E se c’era, nel senso dell’arrangiamento costruito, ormai hanno imparato a schivarlo».
L’Eurofestival si è raffinato?
«L’errore era vendercelo come trash. Poi che cosa vuol dire? La musica non è mai trash, è un’etichetta davvero superficiale che bolla i gusti delle persone. È un arte e quindi ognuno frequenta quella che crede».
Quindi Eurovision ha eliminato un pregiudizio musicale?
«Lo sta eliminando la gente che ascolta, che si fa trascinare. La musica è fatta da chi, appassionato, la crea o la produce e chi si diverte a sentirla. È un rapporto sempre sincero, spontaneo. La credibilità di uno spettacolo dipende da questo, non da una corrente o da un giudizio o da quanto hai studiato. Non esiste musica di cui ci si debba vergognare».
L’Italia non è mai stata tanto coinvolta dallo show.
«Effetto Måneskin e ricasco di merito perché loro sono la prova che in questa gara, vista da centinaia di milioni di persone, vince il più bravo, chi sa fare la differenza. Non male come messaggio».
Cinquetti, Cutugno, Måneskin. La sequenza dei vincitori dice qualche cosa dell’Italia?
«Che siamo imprevedibili».
Lei ha iniziato a fare musica dalla sua camera, Blanco dice di aver fatto lo stesso.
«Fa una certa impressione sentire che ora è un’abitudine. Noi a un certo punto, sto lavoro campionato in casa dovevamo portarlo fuori e convincere qualcuno a crederci, adesso oltre agli strumenti virtuali esiste lo streaming. Più facile iniziare, più difficile restare. La concorrenza è infinita e poi magari ti ritrovi alle prese con la popolarità senza esperienza».
Rappresenterebbe l’Italia a Eurovision?
«Da noi c’è questo meccanismo per cui devi proporti in italiano, quindi credo non sia possibile».
Non le piace che sia Sanremo a scegliere?
«Mi sembra discriminatorio, la lingua non è più un fattore così determinante. Vedo un sacco di italiani con proposte in inglese nelle classifiche di Spotify».
Per rappresentare l’Italia non serve l’italiano?
«Perché? Io la rappresento, non a Eurovision, ma in molteplici occasioni davanti a un pubblico internazionale che mi identifica, con mio grande orgoglio, come italiano anche se mi esibisco in un’altra lingua. Ripeto, lo vedo come un limite».
Preferirebbe fare il conduttore di Eurovision?
«Dire mai non è nella mia natura, però se mi chiedete dieci cose che penso di non fare c’è anche questa. Lasciamo il mestiere a chi è capace».
Lumix, l’artista austriaco che ha prodotto è uscito subito.
«Ci sta, magari il genere non piaceva a tutti o non piaceva lì. Il brano sta andando bene, è super streammato».
Che effetto le fa vedere Torino travolta dall’entusiasmo?
«Non avevo dubbi: in fase di candidatura ho fatto appelli social, in collaborazione con il comune, e pensavo proprio a quello che ora vedo».
Il successo ha scatenato nostalgie per la Torino della musica underground.
«Non ho questa sensazione, sì Torino è stata la capitale di una certa tendenza da garage e si è pure sempre lanciata negli eventi. Con trasporto».
Slanci che restano?
«Capita di sentire ripetere stereotipi in cui nessuno crede più eppure stanno ancora nelle chiacchiere al bar. Chissà come mai. Questo è il fermento che immaginavo, lo spirito della mia città».