la Repubblica, 14 maggio 2022
Che cosa farà Guardiola con Haaland?
Pep Guardiola sta concludendo la tredicesima stagione da allenatore con ottime probabilità di vincere il suo decimo campionato, ma non è di questo che si è parlato in settimana. Il riflettore si è acceso sul grande affare di mercato che il Manchester City ha ufficializzato martedì, l’acquisto di Erling Haaland dal Borussia Dortmund: un trasferimento monstre nelle cifre, per quanto lievemente inferiori a quelle annunciate – si è scoperto che la clausola di rescissione ammontava a 60 milioni, non a 75 —, un colpo che, nel giudizio popolare, risolverà i problemi in attacco di Guardiola. Ehm. Problemi. In attacco.
Quest’anno in Premier il City ha segnato 94 gol in 36 partite, secondo soltanto al Bayern (95 in 33) nel solito computo dei cinque tornei nazionali più importanti. Nel corso delle sue tredici stagioni in panchina, Guardiola ha visto le sue squadre segnare 1306 reti soltanto nei campionati: siamo sopra alla media di 100 all’anno. Per capire di cosa stiamo parlando, nessuno in Serie A c’è più riuscito dalla stagione 1950-51 (Milan e Inter appaiate a quota 107). E dunque il gol al City non sembra la prima questione all’ordine del giorno.
Il problema di Guardiola è un altro, questo sì evidente: nelle nove stagioni seguite all’esperienza di Barcellona, le sue squadre – pur essendo forti e costose, sia i tre Bayern che i sei City – non hanno più vinto la Champions. Pep ha mostrato un’inesauribile fantasia nel fallire il traguardo più importante (perché lo è, chi sostiene che uno scudetto valga di più recita la volpe e l’uva), dalle formazioni scombinate dal cosiddetto overthinking— pensarci troppo, finendo per sbagliare – a vertiginosi passaggi a vuoto come quello, recente, del Bernabeu. E qui la critica più analitica può ricongiungersi con lo sbrigativo discorso del gol perché una parte del problema, non tutto, ha riguardato il tasso di conversione delle occasioni. Nei 210 minuti giocati contro il City, il Real Madrid ha segnato sei gol su – diciamo – otto belle chance create, il che descrive un’ottima percentuale realizzativa. Il Manchester City ne ha centrati cinque, a fronte di una dozzina di palle-gol cantate. Allargando l’inquadratura, è uscito in semifinale malgrado un totale di 31 conclusioni. Better call Haaland.
L’ennesima eliminazione, per mano di un beniamino di tutti come Carlo Ancelotti, è costata a Guardiola – sui social ma non solo— un’impressionante quantità di derisioni, rivelatrici di un fastidio per l’uomo diffuso a ogni livello. Una parte è spiegabile con la presenza di un partito a lui favorevole con tonalità talebane: siccome il pendolo che oscilla molto in profondità in una direzione inevitabilmente lo fa anche nell’altra, gli estremi del dibattito risultano inconciliabili al limite dello sgradevole. E vabbè. Ma questo non basta a spiegare il motivo per cui, come dice Valdano, di Guardiola si analizzino le sconfitte assai più delle vittorie, come se l’inesauribile desiderio di migliorarsi – un aspetto che ci pare ammirevole, un antidoto alla pigrizia intellettuale – fosse una colpa da espiare.
Guardiola nel tempo ha evoluto moltissimo la sua visione del calcio, adattandosi allo spirito del luogo come il grande chef valorizza i prodotti del territorio. Il suo Barcellona giocava il tiqui-taca, una gran mole di passaggi orizzontali per creare la superiorità numerica; il suo Bayern fu la prima grande a portare i terzini in mezzo al campo per occuparlo favorendo costruzione e recupero palla; il suo City ha più che dimezzato i tempi di trasferimento da un’area all’altra, verticalizzando la manovra in puro stile inglese. Guardiola è un trotskista da “rivoluzione permanente” che non si preoccupa di tornare indietro se il caso lo richiede: i lanci lunghi di Ederson, citati anche da Allegri, sono l’alternativa scelta nei casi in cui l’architettura della costruzione dal basso fatica a trovare uno sbocco. Questo significa che i talebani presenti anche da noi ordinino la partenza dal basso a costo di pagarla con un gol a partita, mentre Guardiola è così duttile da averla prima inventata, e poi dimensionata nel modo più opportuno: si fa quando si può, altrimenti si lancia.
Le prese in giro seguite all’annuncio di Haaland sono parte di questo discorso. Fior di personaggi si sono esibiti nel ricordare una delle sue frasi celebri – “il centravanti è lo spazio” – colpevole di aver colpito l’immaginario collettivo se è vero che ce la ricordiamo tutti a distanza di 15 anni. “Per lui il centravanti è lo spazio e intanto si è fatto prendere Haaland, che è l’archetipo del numero 9. Bella coerenza”. Alt, mettiamo un po’ d’ordine. L’invenzione di Messi “falso 9”, per farlo uscire dall’area risucchiando due difensori, spalancava lo spazio centrale alle incursioni di Henry, Pedro e David Villa: il senso della mossa era questo, ed era ovviamente imperniato su Leo. Passato al Bayern, Guardiola ha schierato 9 verissimi come Mario Mandzukic (18 gol nel suo anno) e Robert Lewandowski (17 e 30 nelle due stagioni). Al City ha trovato il Kün Aguero, che finché è stato in piedi ha coperto il ruolo alla grande: 20, 21 e 21 i gol in Premier dei primi tre anni, poi è iniziato il declino al quale Pep – non completamente convinto né da Sterling né da Gabriel Jesus – ha cercato per due anni di porre rimedio ingaggiando Harry Kane. Il Tottenham non l’ha mollato, e così si è arrivati all’opzione Haaland. Ma la storia dello spazio centravanti è vecchia come il tiqui-taca, e continuare a tirarla fuori è strumentale.
Guardiola sta sull’anima perché il City gli finanzia quasi ogni desiderio, ma non è colpa sua se il club non ha un negoziatore in grado di pagare Grealish meno di 117 milioni. È vero, invece, che la sua insofferenza verso chi gioca in modo difensivo, Simeone su tutti, è sempre più gridata, e questo non va bene, perché il calcio etico non esiste. Anche se l’amore per chi attacca ci porta naturalmente da Guardiola, il suo non è un modo “morale” di vincere, opposto a uno “immorale”. Ci sono le regole, e dentro il loro perimetro vale tutto. Betterprenderne atto.