Corriere della Sera, 14 maggio 2022
Scoprire a Varese la villa di Lodovico Pogliaghi
Si seguano i passi di un viaggiatore avveduto e smaliziato quale era Stendhal. Che a Varese, lungo la Via Sacra – due chilometri di romantico acciottolato tra le quattordici cappelle del Sacro Monte – si emozionò alla vista di ben sette laghi nella cornice seghettata di Alpi e Prealpi.
Un mondo a parte. Silenzioso, mistico, quasi sospeso. Perfetto per il raccoglimento spirituale e la creazione artistica. Così dovette pensare quella singolare figura di Lodovico Pogliaghi – 1857-1950 —: scultore, pittore, architetto, scenografo, decoratore, illustratore, orafo, medaglista, collezionista e pure viaggiatore. Che proprio qui volle erigere il suo buen retiro.
E in fondo al viale delle Capelle, angolo magico, progettò una residenza preziosa e bizzarra, tutta bow window, loggiati, stanze «in stile» nel gusto eclettico dell’epoca, dove allestire con tocco teatrale le proprie raccolte d’archeologia, arte, vetri, curiosità orientali. Quasi una Wunderkammer formato gigante. Volubile nelle visioni estetiche, l’artista milanese modificò gli ambienti più volte, trasformando anche il giardino con esedra, punteggiato di antichità e stravaganze, in una scenografia in divenire. Carattere di ferro concentrato in un metro e mezzo di altezza, Pogliaghi fu – per il gusto spettacolare dello spazio – il «Renzo Mongiardino» (architetto e scenografo) del suo tempo. A Milano, oltre all’arredo del Museo Poldi Pezzoli, curò la decorazione di Palazzo Turati e a Torino quella del Castello del Valentino; suoi il gruppo colossale della Concordia per l’Altare della Patria a Roma, la sistemazione della tomba di Dante a Ravenna e il portale maggiore del Duomo di Milano (1906). Un’opera alla quale lavorò incessantemente per quattordici anni e il cui gesso a grandezza naturale giganteggia nell’Atelier, dove fece sfondare e alzare il tetto, in origine troppo basso per poterlo ospitare.
«Le case non si arredano, si creano», diceva Mongiardino. E Pogliaghi diede forma alla propria secondo quel disordine, che per Paul Claudel «è la delizia dell’immaginazione». Su, alla sommità del Sacro Monte, sarcofagi egizi, reperti etruschi e greco-romani, Madonne tedesche, vetri medicei e veneziani, specchiere di Murano, tappeti orientali, lacche birmane, terrecotte del Bernini, Cristi del Giambologna, tele di Procaccini, Magnasco e Morazzone si stratificano in una caleidoscopica sequenza di sale. Dalla spettacolare Esedra dei marmi (vero e proprio Pantheon domestico) all’avvolgente Sala Rossa (per le splendide tappezzerie in damasco cremisi settecentesche). Dalla Sala delle Madonne alla Biblioteca, fino alla Galleria Dorata, riproduzione in gesso, stucco e specchi del bagno in oro zecchino, che avrebbe dovuto realizzare in dimensioni quattro volte maggiori nella reggia dello Scià di Persia a Teheran.
Artista-collezionista alla continua ricerca d’ispirazione, Lodovico Pogliaghi ha lasciato una delle maison d’artiste più integre e sorprendenti, testimone di una curiosità onnivora e di una cultura senza confini, aperta a tutte le espressioni d’arte. Tranne una: l’avanguardia in ogni sua forma, dalla quale si tenne sempre a sdegnosa distanza, fedele a romantiche sensibilità d’altri tempi.
Per questo, a dispetto del grande successo in vita, dopo la morte venne presto dimenticato. A riscattarlo dall’oblio questa casa-studio, il suo più compiuto capolavoro, che per volontà testamentarie lasciò completa delle collezioni (oltre 1500 opere d’arte e 580 reperti archeologici) alla Santa Sede. Il Vaticano la girò a sua volta alla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, che l’ha aperta al pubblico nel 1974 e ne è ancora custode.