Corriere della Sera, 14 maggio 2022
Una biografia di Leonardo Del Vecchio
C’è stato un momento nel quale Leonardo Del Vecchio stava per fallire. Siamo nel 1969. Se tutti i funzionari del credito si fossero comportati come lo sciagurato direttore della Banca del Friuli di Agordo – che negò un fido allo sconosciuto imprenditore degli occhiali – non saremmo qui a parlare di uno degli uomini più ricchi d’Italia, maggior azionista di Mediobanca oltre che di Generali. Per fortuna un finanziamento gli venne accordato dalla Cassa di Risparmio di Belluno. Non dall’istituto della valle che lui, negli anni, beneficerà di lavoro e reddito. Ma almeno dalla banca del capoluogo di provincia del distretto degli occhiali made in Italy, che lancerà in tutto il mondo. Con quel fido, Del Vecchio liquidò i suoi primi soci (della Metalflex) ma soprattutto riuscì a pagare regolarmente creditori e operai. Si salvò.
Nel Bellunese era un immigrato alla rovescia. Veniva da Milano. Un «foresto». Erano sicuri che quel pur volenteroso terzista e fornitore di stampi non ce l’avrebbe fatta a competere con i rivali locali già affermati dell’occhialeria (Lozza, Marcolin, Safilo). Quando la piccola fabbrica riaprì ad Agordo dopo le ferie estive, il commercialista esterno che curava la contabilità lo accolse così. «Ma come, non vi avevano chiuso il conto? Non siete falliti?». «No, ragioniere, siamo ancora aperti», rispose orgoglioso il ventenne Del Vecchio. Mi è sempre rimasta la curiosità di sapere se Del Vecchio, applicando gli attuali sofisticati algoritmi che misurano il merito di credito, avrebbe superato l’esame. Per fortuna ebbe di fronte all’epoca, almeno in una banca, funzionari di buon senso che lo guardarono in faccia. E credettero in lui, nelle sue capacità, nel suo spirito di sacrificio, nella voglia di farcela contro ogni vento contrario. Temo che un algoritmo analogo non avrebbe finanziato, come per fortuna avvenne, nemmeno Enzo Ferrari. Che follia dare dei soldi a uno che voleva costruire auto da corsa mentre c’erano ancora le macerie della guerra!
Nel leggere la bella biografia curata da Tommaso Ebhardt (Sperling&Kupfer), scritta con il passo avvincente di un romanzo e nello stesso tempo con la cura per il dettaglio del cronista, si coglie qualche semplice ma istruttiva verità. Non c’è limite al talento, d’accordo. Ma soprattutto sono imprevedibili gli orizzonti che l’umiltà e la fatica del lavoro possono dischiudere. Non arrendersi mai, non aspettarsi nulla dagli altri. Non si è mai soddisfatti, realizzati. Mentre il giovane Del Vecchio macinava chilometri sulla sua Fiat 1100, alleviando la fatica con la simpamina, i suoi concorrenti si ritenevano già realizzati costruendo la propria villetta a Jesolo. E cominciava il loro declino.
L’ultraottantenne Del Vecchio resta inquieto. Tenta insieme a un altro self made man come Francesco Gaetano Caltagirone la scalata alle Generali. Respinti. Resta un mistero di come due imprenditori così diversi per carattere possano andare d’accordo. Insieme si apprestano a regolare i conti anche con il management di quella Mediobanca che si oppose al disegno del patron di Luxottica sull’Istituto europeo di oncologia (Ieo). Curioso che fu il no dell’istituto di piazzetta Cuccia a una sua donazione per la cura e la ricerca di 500 milioni di euro (avete letto bene) a scatenare la lotta fratricida della finanza italiana.
Non solo a Belluno, ma anche a Milano, Leonardo Del Vecchio era, di fatto, un immigrato. Povero. La sua famiglia veniva dalla Puglia. Non conobbe il padre, venditore ambulante di frutta e verdura che morì prematuramente. Quando aveva sette anni, la madre Grazia non fu più in grado di badare ai suoi tre figli e fece domanda (siamo nel 1942) per l’ammissione di Leonardo, il più piccolo, all’orfanotrofio dei Martinitt, lo stesso frequentato da Edoardo Bianchi, il futuro re delle biciclette, e da Angelo Rizzoli. Nel suo fascicolo, finora inedito, si legge che «urge immediato ricovero perché viene dall’ambiente delle case minime e passa la giornata nel più completo abbandono». Il piccolo Leonardo passò da una modestissima casa di ringhiera della periferia milanese di Baggio alle austere camerate dell’istituto. La divisa, la sveglia alle sei, la fila per lavarsi, a petto nudo, anche d’inverno. Quando nel 1949 chiede di lasciare in anticipo l’istituto spiega che vuole diventare «un ottimo meccanico specializzato». «È stata la mia fortuna – confida a Ebhardt – perché il collegio è diventato la mia famiglia. Stavo bene, mi hanno insegnato delle regole». Regole trasformatesi in abitudini, come quella di andare in fabbrica anche prima dell’alba. Accompagnato da Luigi Francavilla, suo alter ego, di origini pugliesi anche lui, ormai agordino stabile. Un altro immigrato alla rovescia che lascia la Svizzera, terra di fluviale e disperata emigrazione della gente dolomitica, per stabilirsi in valli di rara bellezza ma anche di secolare povertà. Oggi purtroppo spopolate. Nessuno dei due parla inglese, ma sanno conquistare il mondo. Scelgono bene i loro collaboratori. «Ho la fortuna di aver trovato – dice Del Vecchio – persone che avevano la mia stessa volontà». Un giorno chiamano da New York. Hanno ricevuto cinquemila paia di occhiali con i naselli montati alla rovescia. Un disastro. Da Agordo partono subito. Arrivano di corsa e, in una notte, mettono a posto i naselli. I clienti si conquistano così. Le parole non contano. Forse un episodio come questo dice più delle tante conquiste che hanno segnato l’internazionalizzazione di Luxottica, in particolare l’acquisto della società che produce i mitici Ray-Ban. Un derby tutto italiano, bellunese, con l’altro contendente, la Safilo di Vittorio Tabacchi, un grande del settore. Vince Del Vecchio e i due non si parleranno per anni. Come si litiga in Veneto non si litiga da nessun’altra parte. Luxottica è quotata prima a New York che a Milano.
Quando gli italiani scoprono che Del Vecchio è il primo contribuente d’Italia, la sua popolarità esplode. Paolo Frajese lo intervista per la Rai ma lo chiama sempre Lorenzo. La crescita è inarrestabile, le acquisizioni sono numerose – tra cui Persol – e i contratti con gli stilisti un decisivo fattore di successo. Si allea con Armani che poi lo lascerà per Safilo. Ma i due si ritroveranno. Non solo per gli affari ma anche per iniziative di solidarietà. L’ultima grande operazione, con Essilor, che produce lenti, completa il sogno di un’integrazione verticale. Sembra, inizialmente una cessione. Anche perché Essilor-Luxottica è quotata e ha sede a Parigi. Ma la Delfin, la finanziaria lussemburghese di famiglia, è il primo azionista. E Francesco Milleri, il suo braccio destro, ne diventerà in seguito l’amministratore delegato. Tre mogli, l’attuale sposata due volte, sei figli. Una vita sentimentale altrettanto inquieta. Il rimpianto di non aver dedicato alla famiglia maggior tempo. Quando decise di farlo – all’epoca in cui assunse dalla Indesit Andrea Guerra – se ne pentì presto. Tornò al timone. Il valore di Borsa, da allora è triplicato. La sua fortuna personale è di circa 30 miliardi. Dell’imprenditoria italiana dice che spesso si «ferma spesso al primo successo e smette di innovare». E che lui «ha sempre cercato di migliorare», ogni volta pensando al passo successivo. Il suo segreto? Semplice «Io voglio essere il più bravo in tutto quello che faccio. Tutto qui».