Corriere della Sera, 13 maggio 2022
Maria Falcone ha scritto un libro di memorie
Ai funerali di Stato di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca e degli agenti di scorta – lunedì 25 maggio 1992 nella chiesa palermitana di San Domenico – fu notata un’assenza importante. Quella del presidente del Consiglio, in carica sia pure dimissionario, Giulio Andreotti, che invece due mesi prima aveva voluto presenziare alle esequie del suo amico Salvo Lima, l’eurodeputato assassinato dalla mafia perché – si vociferava prima, e confermeranno i pentiti poi – non aveva rispettato i patti siglati con i boss.
«A San Domenico no, non c’era. Lo sottolineai in un’intervista al “Corriere della Sera”. Lui si risentì e mi scrisse. La lettera di Andreotti, che ancora conservo, mi colse di sorpresa e non mi piacque affatto», ricorda adesso Maria Falcone nel libro L’eredità di un giudice scritto a trent’anni di distanza con la giornalista Lara Sirignano.
L’allora premier rispose alla sorella del magistrato trucidato a Capaci con una lettera «formalmente ineccepibile, garbata, ma pungente e infastidita». Spiegò che era rimasto a Roma per preparare il discorso che avrebbe pronunciato in Parlamento sulla strage, aggiungendo una frase che, sottolinea oggi Maria Falcone, «trovai inaccettabile e che suonava come un rimprovero: in sostanza mi accusava di essermi fatta strumentalizzare e di aver prestato la voce a chi usava la lotta alla mafia come arma di battaglia politica».
La sorella di Falcone si risentì perché «nessuno mi aveva imbeccato», e perché per quello che ricordava delle scarne confidenze a cui si abbandonava il fratello su questioni che avevano a che fare col suo lavoro, «la stima e la dimestichezza» rivendicate da Andreotti con il magistrato «non erano state reciproche». Ma al di là dei sentimenti suscitati dalla risposta dell’ex premier, l’assenza dell’allora capo del governo al funerale di Stato resta una delle tante ferite mai rimarginate che Maria Falcone ha voluto ricordare in questo libro di memorie post strage.
Finora aveva parlato del prima, del fratello minore partito dal quartiere palermitano della Kalsa e approdato al ministero della Giustizia, braccio destro del guardasigilli Claudio Martelli, dopo essere diventato il magistrato antimafia più famoso del mondo. Il nemico numero uno di Cosa nostra ammazzato da Cosa nostra. Adesso sua sorella rivela le amarezze e i dispiaceri del dopo, che non si sono fermate con la morte né sono state sepolte con la cerimonia funebre. Anzi, la traslazione della salma proprio a San Domenico, il Pantheon di Palermo «dove riposano i siciliani illustri», provocò sette anni fa polemiche in alcuni casi comprensibili e «mosse da sentimenti autentici», ma pure «pretestuose e sgradevoli, venute da sedicenti amici o collaboratori di Giovanni».
L’intera vita di Falcone è stata segnata da difficili rapporti con la politica e con i partiti della cosiddetta Prima Repubblica; è stato accusato a fasi alterne di essere troppo legato a questa o quella fazione, anche da parte di ex sostenitori o presunti alleati. Dopo la morte è toccato a Maria affrontare i politici che per convenienze personali le chiedevano di piegarsi a logiche di appartenenza che lei non ha mai assecondato, avendo sempre come unico obiettivo la difesa del nome e dell’onore di suo fratello. Ecco dunque i contrasti con il sindaco di Palermo Leoluca Orlando; i tentativi dell’ex capo dello Stato Francesco Cossiga di limitarne le denunce nelle sedi istituzionali; la scelta di dichiarare sgradito l’allora ministro Cesare Previti, futuro pregiudicato ma «già allora molto chiacchierato», a rappresentare il governo nella commemorazione per il terzo anniversario della strage di Capaci; le candidature accettate con i Verdi (ma non fu eletta) e con il neonato Partito democratico (annunciata e successivamente saltata senza nemmeno una telefonata per comunicare il ripensamento).
Ma insieme al disappunto per i trattamenti ricevuti da Falcone finché è vissuto e da lei nella decisione di preservarne la memoria, ci sono pure le gioie e le soddisfazioni di una professoressa ormai in pensione da tempo che è tornata a girare l’Italia (e all’inizio anche il mondo) per incontrare gli studenti di oggi, giovani che vogliono sentire parlare di mafia e conoscere l’antimafia del giudice assassinato a Capaci quando loro non erano ancora nati. Non tanto attraverso la scontata rievocazione di un eroe nazionale, quanto nei racconti di vita quotidiana di un fratello giudice che semplicemente svolgendo il proprio lavoro s’è trovato a fronteggiare un fenomeno criminale non solo agguerrito e pericoloso, ma anche con tentacolari infiltrazioni nel mondo sociale, politico ed economico, che l’hanno reso ancora più insidioso.
La prima battaglia antimafia, spiega «la professoressa» col suo racconto, si fa nelle scuole, «per contrastare il mito della “mafia buona” che non tocca le donne e i bambini, che dà occupazione, che fa quello che lo Stato non riesce a fare». È la scelta che dà i frutti migliori e più genuini.
Dal 1992 tante cose sono cambiate, la mafia stragista è stata sconfitta e anche il controllo del territorio a Palermo e nelle altre zone è esercitato e contrastato in modo diverso rispetto ai tempi di Falcone. Certo, il «pizzo» si paga ancora, ma «quando Giovanni era vivo mai avrei immaginato di vedere le immagini di un piccolo imprenditore del Borgo Vecchio rifiutarsi di cedere e mostrare all’uomo del “pizzo” un album con le foto di Falcone, Borsellino, dalla Chiesa, Libero Grassi».
È uno dei segnali che è valsa la pena decidere di uscire dall’ombra e dalla riservatezza, per affrontare una nuova missione. Che quella vita pubblica (e sotto scorta) cominciata quasi all’improvviso dopo il funerale a San Domenico con le prime denunce delle umiliazioni subite da Giovanni Falcone – a cominciare da quelle infertegli dai suoi colleghi e dal procuratore in persona —, resa ancora più urgente dalla altrettanto drammatica e quasi immediata scomparsa di Paolo Borsellino, andava vissuta pienamente. Con determinazione e convinzione. E trent’anni dopo non è ancora venuto il tempo di smettere.