La Stampa, 13 maggio 2022
Le lettere dei lunghi addii
Siamo stati capaci di aspettare, di accettare l’attesa, che è un addestramento al mistero, fintanto che abbiamo scritto (e ricevuto) lettere. D’amore, d’odio, d’aiuto, di semplice amministrazione casalinga, di manutenzione degli affetti. Ora non usa più, lo rimpiangiamo, pagheremmo per riceverne o anche per avere qualcuno che le scriva per noi: in HER, Spike Jonze immagina un bizzarro futuro vintage in cui l’autore di lettere su commissione è un lavoro da azienda. A Bologna, qualche tempo fa, una start up ha creato il progetto APRI: ogni mese, agli abbonati arriva una busta con un racconto originale e inedito, scritto in forma epistolare, talvolta a mano. La sola cosa che nessuno mai vorrebbe ricevere è una lettera di addio, ed è la ragione per cui, nei molti epistolari che spesso arrivano in libreria, non ce ne sono quasi mai. Siamo abituati a epistolari romantici, che dell’amore raccontano la passione, l’ossessione, l’ampiezza, la guittezza: tutto meno che la fine. Aborriamo l’idea che qualcuno ci abbandoni senza guardarci negli occhi, senza spiegarci perché, anche se quel perché è sempre una bugia: vogliamo una sessione di massacro, un faccia a faccia, un me contro te, assurdamente convinti che una spiegazione convincente lenirà il dolore. Quanto sbagliamo. E per capirlo basta leggere Come dirti addio. Cento lettere d’amore da Saffo a Garcia Lorca di Cristina Marconi, che ha cercato le parole del commiato, le frasi della cesura, le parole dell’ultima volta. Quelle che si scrivono quando la libertà diventa incompatibile con l’amore. È per questo che la lettera d’addio, fintanto che è esistita, è stata, scrive Marconi, «qualcosa di simile a un atto notarile» e, soprattutto, «una lettera a se stessi». Ci si lasciava per lettera quando ci si lasciava: quando le cose finivano, la morte non aveva sinonimi, esisteva lo scatto alla risposta. Ora ci si abbandona e ci si continua a spiare: ci si continua a parlare non con le parole e nemmeno con i fatti ma con le tracce. C’è il ghosting, che è una pratica precisa: smetto di rispondere alla persona con cui ho una relazione, ma non interrompo completamente le nostre interazioni virtuali, così che sappia che sono nelle vicinanze, che incombo, che potrei tornare, che non ho perso interesse, che seguo, osservo, spio quello che fa, scrive, condivide, mostra. Ridicolo, ma c’è stato di peggio. C’è stato Jacopo Ortis, che si congedava dalla povera Teresa dicendole che stava per ammazzarsi, ma che lei doveva vivere felice e per carità non sentirsi mai responsabile della sua morte: «Se taluno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne: Teresa è innocente». Quant’erano tossici i maschi romantici.
Gustave Flaubert, una cinquantina d’anni dopo, scrisse a Louise Colet: «Il saper vivere mi impone di avvertirvi: non ci sarò mai. Ho l’onore di salutarvi». Henriette a Giacomo Casanova: «Desidero che mi ami ancora e che il tuo genio ti faccia trovare un’altra Enrichetta. Addio».
Salvatore Quasimodo a Maria Cumani (dopo averla tradita innumerevoli volte): «Le tue ragioni di sofferenza si sommano a quelle di tante altre anime, umili o orgogliose che siano».
Le lettere d’addio, dell’amore, dicono quello che sappiamo e non vogliamo ammettere: che gli si sopravvive, che ci rende schiavi e ridicoli, che dà senso a qualcosa che senso non ha, la vita. Soprattutto, come le scarpe e le mogli, dicono chi è chi le scrive. Noi all’identità non crediamo più e allora non ci scriviamo più addio, e neppure arrivederci. Ci mandiamo su WhatsApp una canzone di Adele che si chiama Hello. E parla di una storia che finisce.