La Stampa, 13 maggio 2022
Antonio Scurati parla di guerra
La guerra in Ucraina ha sconvolto tutto, anche le tesi solide che un intellettuale ha elaborato per decenni. Antonio Scurati, prima di scrivere la saga di Mussolini, ha studiato e scritto molto sul tema della rappresentazione della guerra. L’invasione del 24 febbraio lo ha costretto mettersi in discussione e da queste riflessioni nasce la nuova edizione di Guerra (Bompiani), un saggio che verrà presentato al Salone del Libro di Torino, domenica 22 maggio, in un incontro tra Scurati e il direttore de La Stampa Massimo Giannini.
Scurati, perché ha sentito l’urgenza di ripubblicare un testo scritto molti anni fa?
«Non è la prima volta. Guerra, in fondo, è un work in progress, da aggiornare, sotto la dettatura della cronaca».
Nella prefazione lei ammette di aver dovuto rivedere alcune tesi elaborate nel corso degli anni. L’Ucraina ha stravolto il lavoro di una vita?
«Mi sono chiesto se ciò che ho sostenuto, per esempio per la guerra del Golfo, sia ancora vero oggi e se quest’ultimo conflitto rappresenti un passaggio d’epoca».
Qual è il concetto che la guerra in Ucraina più di tutti ha messo in discussione?
«Già nell’antichità omerica la guerra è incentrata sul modello della visibilità, si offre in spettacolo al poeta che la canta e quindi alla posterità. La guerra, che è il "paradiso dello spettatore", ha due virtù: è "veritativa" ed è decisiva, perché risolve. Quella in Ucraina non ha nessuno dei due elementi».
Come se lo spiega?
«Perché Putin e la sua guerra non appartengono all’Occidente, ne sono i nemici. Lui stesso usa queste categorie: nel suo discorso del 9 maggio si scaglia contro gli Stati Uniti e per ben due passaggi cita l’Occidente».
Ma esiste davvero questo Occidente o è un’astrazione?
«È l’interrogativo più urgente che Putin ci consegna. Ci sentiamo, noi italiani ed europei, occidentali? Siamo parte di un’identità politica, etica e culturale che risponda a questo nome? Man mano che le settimane di guerra trascorrono la mia risposta inizia a essere no. Non esiste nessuna identità geografica, politica o morale che possa essere denominata Occidente».
Com’è cambiata la sua lettura del conflitto?
«Nei primi giorni di guerra il dato imperativo era quello di un popolo che si è sollevato in armi contro un invasore, che ha combattuto in maniera sorprendente per la propria libertà e quel dato doveva dettare i nostri comportamenti di solidarietà. Io continuo a pensarla così rispetto agli ucraini, ma si sta rendendo palese un altro aspetto, la cosiddetta guerra per procura fa emergere divergenze di orizzonti strategici, tra noi e gli Stati Uniti».
Dalla subalternità si esce con un esercito europeo?
«In una prospettiva storica sarebbe il primo caso di un esercito che si fonda su una prospettiva pacifista».
Sembra un paradosso.
«Sì, ma pensiamoci: nell’Europa occidentale, per aver vissuto delle apocalissi nel secolo scorso, è largamente predominante una cultura pacifista. In fondo il pacifismo, nella sua versione più consapevole, è una cultura della guerra, che non significa culto, ma patrimonio di conoscenze su come si producono i conflitti».
L’esercito europeo che scopo avrebbe?
«Non quello di portare la pace nel mondo, un ideale impraticabile e tramontato. Sarebbe una forza militare potente e temibile, al cui fondo non ci sarebbe una cultura bellicista, ma pacifista. Attraverso logiche di deterrenza questo ci consentirà di essere autonomi e neutrali quando ci sarà la prossima guerra».
Neutrali rispetto a cosa?
«La prossima guerra non sarà più per procura, ma un confronto militare tra Stati Uniti e Cina, scenario che molti analisti giudicano inevitabile».
Come le sembra il livello del dibattito in Italia?
«Pessimo. Da una parte ci sono i professionisti dello status quo che spiegano ogni sera che non c’è alternativa a quello che vediamo. Dall’altro c’è la ricerca di un confronto tra posizioni diverse all’insegna della spettacolarità più volgare, magari invitando gli agit prop di Putin».
Lei si occupa da decenni di rappresentazione della guerra: come si spiega questo modo di trattare il conflitto?
«È uno degli effetti perversi della trasformazione della guerra in spettacolo mediatico, di cui ragiono in questo libro. Sono 30 anni che la guerra è diventata una serata sul divano davanti alla tv. Siamo scivolati in una bolla di idiotismo, tanto da arrivare a concepire la guerra come una cosa interna alle logiche mediatiche».