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 2022  maggio 13 Venerdì calendario

Bebe Vio: «Non sono santa»

Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis, detta Bebe, percepisce se stessa come una sorta di ipercreatura, una stazione spaziale a cui il destino ha lanciato componenti fiammeggianti: le braccia, le gambe, la sua acrobatica bellezza. E da oggi due mani nuove nuove con cui risponde al telefono, l’auto col cambio automatico parcheggiata a bordo strada, ancora sudata dall’allenamento di scherma.
Racconta di due strumenti tecnologici pazzeschi, con l’invaso colorato d’argento, fatto apposta per abbinarsi all’abito Dior con cui il 17 maggio sfilerà sul red carpet di Cannes, all’apertura del Festival del Cinema. Così sofisticate, dice, che è riuscita persino a mangiare il sushi con le bacchette, piccola acrobazia che per anni le era stata preclusa.
Due medaglie d’oro nel fioretto paralimpico individuale. Un argento in quello a squadre. Decine di titoli mondiali. A 25 anni Bebe vive un momento d’impegno totale: ha lanciato la Bebe Vio Academy, struttura dove ragazzini disabili e normodotati fanno sport insieme, in una democrazia dei corpi che sogna di vedere in futuro applicata ovunque. Il meningococco che l’ha colpita nel 2008, una malattia che nel 97% dei casi uccide, rimane sullo sfondo di ogni parola come una nascita, come un luogo originario, come un risveglio. E nel presente, da rimandare al mittente in nome di tutta la sua dirompente fragilità, una piccola condanna alla perfezione che in troppi tendono a proiettarle addosso: la santità.
Con le mani nuove imparerà a suonare uno strumento?
«Temo proprio che questo non accadrà mai.Pensi che non riesco neppure a tenere il tempo degli applausi».
Quali sono le voci sempre presenti nella sua mente?
«Quelle dei bimbi nella mia Academy: trenta ragazzini dai sei ai diciotto anni, metà normodotati e metà disabili, che si sfidano in super competizione tra loro, si prendono in giro, si aiutano, ridono, senza pudori né barriere. Ogni palestra del pianeta dovrebbe essere così. Questa è l’utopia del mondo che vorrei».
A 25 anni si sente trattata da donna o sempre da simbolo?
«In realtà, incarnare un ruolo è sempre stata una scelta mia: sono diventata un esempio per i bambini quando ero a malapena una bambina anch’io. E poi lo sono divenuta per gli adulti quando adulta non ero ancora. Alla fine, sono semplicemente una persona che ha avuto tantissime sfighe nella vita, e che ha saputo sempre trarne il meglio».
A Roma per un po’ è stata vicina di casa del maestro Bernardo Bertolucci.
«Il problema è che non avevo idea di chi fosse: per me era il carovecchiettino che passava il tempo sulla carrozzina nel giardino del vicino e che mi lasciava le letterine sotto la porta per invitarmi a bere il tè. Andavo a casa sua, vedevo gli Oscar appoggiati sulla mensola e pensavo fossero finti. Poi un giorno ho incontrato Paolo Ruffini perstrada e l’ho invitato a bere una cosa insieme a noi: Paolo, ti presento Berni. Quando l’ho visto inginocchiarsi a terra, in adorazione, ho capito tutto. Purtroppo, dopo un paio di settimane, è morto».
Una parola che usa spesso è “sfiga”. Come esorcizza la
sfortuna?
«Godendomela tutta quanta. Con la certezza che in base a come la prendo, una cosa bella poi arriverà.
Se la sfortuna non te la godi alla fine non la conosci, e non puoi trarre la linfa che porta. Solo l’idea di subire una nuova amputazione, e non potere più tirare di scherma come ho rischiato accadesse un anno fa, mi lascia senza risorse. Se mi togli la spada, mi ammazzi davvero».
Che paure ha?
«Ho paura di non essere abbastanza.
Paura delle persone che ti circondano, che come possono crearti possono anche distruggerti. E poi, ho scoperto che si può anche avere paura di essere felici».
Un’altra cosa che dice di frequente è: “conquistare il mondo”. Per instaurare quale legge?
«Quella che spinga tutti a non limitarsi a pensare alla propria felicità, ma a contribuire a quella degli altri. Rendere felici gli altri è la cosa che mi piace di più al mondo».
Poi non si stupisca se le danno della santa.
«Secondo la definizione di mia madre: “una strozzabile rompiballe”. Altroché santa. Sono una bella stronza, io».
Nel suo gruppo scout la chiamavano “la fenice”. Quando guarda le sue ceneri alle spalle, cosa vede?
«Non sono una persona che si guarda indietro, e il futuro per me è l’unico orizzonte. I miei genitori mi hanno impostata così, esattamente come hanno fatto i miei allenatori.
Alla fine, se penso a cosa sono, mi rispondo: “il prodotto di tante mani felici”, modellata da un artigianato sapiente. Anche fisicamente se ci pensa è lo stesso: le mie dita le fa qualcun altro. Le mie gambe pure.
Io, Bebe, alla fine sono un riassunto di tante persone».
Pensa che la vita sia una gara?
«Sono cresci uta in una palestra. Ho due fratelli e ho dovuto lottare per tutto.Sono sempre in gara con me stessa e coi limiti che gli altri impongono a loro stessi. In lotta per convincere i miei bimbi che possono correre anche con una gamba sola, e in lotta coi loro genitori che non li lasciano rischiare. La vita è una gara in cui l’avversario è ciò che credi di non poter fare».