la Repubblica, 13 maggio 2022
Solo 4 su 10 prendono il congedo
Dopo anni di incertezze e resistenze, lo scorso marzo l’Italia si è adeguata alla normativa europea sul congedo di paternità, rendendolo strutturale per tutti i lavoratori dipendenti. Dieci giorni, da prendere nei primi cinque mesi di vita del neonato, totalmente retribuiti dall’Inps. Rispetto agli altri Paesi europei, però, il nostro non brilla: poco più di una settimana di permesso rispetto ai 25 giorni della Francia, i 112 della Spagna o i 480 della Svezia. E i dati Inps indicano che negli ultimi sei anni solo il 20% dei neopapà ha chiesto il congedo. La percentuale sale negli ultimi dodici mesi, ma non arriva neanche al 40%. Il motivo principale di questa scarsa adesione è sicuramente da attribuire a retaggi culturali duri a morire, dove il carico del lavoro familiare è ancora sulle spalle delle donne, a cui però va aggiunta una scarsa sensibilità da parte di molte aziende sul tema.
«Nonostante i passi avanti fatti, restano ancora tanti i padri che non si sentono considerati come tali nel mondo del lavoro» spiega Riccarda Zezza, ceo di Lifeed, una società di education technology che ha come scopo il trasferire le competenze della genitorialità al lavoro. «I papà che noi ascoltiamo hanno la piena consapevolezza di voler godere del diritto di vivere l’esperienza genitoriale». La realtà, però, è ben diversa, fatta di stereotipi e preconcetti. «Questi padri —continua Zezza — ci raccontano di una serie di freni: spesso per loro è più facile dire ai colleghi che si assentano per il campionato di calcio piuttosto che per prendersi cura del proprio figlio». I dati dell’Osservatorio vita-lavoro di Lifeed sono emblematici: per il 57% dei padri il ruolo di genitore non è visibile sul luogo di lavoro. E nel 59% dei casi a ostacolarne il riconoscimento in ambito professionale è una cultura aziendale che tende a mantenere separata sfera privata e lavoro. Eppure, quando la paternità è riconosciuta e valorizzata anche sul lavoro, gli uomini sisentono liberi di mostrare in azienda ciò che hanno imparato grazie a questa esperienza: l’83% dei papà si sente più capace di usare le competenze allenate con la genitorialità anche nel mondo del lavoro: come l’ascolto, la comunicazione e la capacità di gestione del cambiamento.
Ci sono poi alcune realtà che raccolgono gli umori e le richieste dei propri dipendenti, forti anche di policy interne attente all’aspetto familiare dei dipendenti. È il caso di Nestlè, che dal 20 marzo ha allungato la possibilità di assentarsi dal lavoro per i neopapà fino tre mesi. «Abbiamo deciso di dare queste 12 settimane con l’ambizione di riassegnare i ruoli familiari » racconta Giacomo Piantoni, direttore delle risorse umane di Nestlè Italia. «Un altro obiettivo è quello del gender balance: sappiamo che la maternità penalizza la donna, che spesso rinuncia al posto di lavoro dopo il primo figlio o sceglie il part time rallentando la carriera, e questo ha un forte impatto sul gap salariale nella coppia. Stiamo puntando sulla genitorialità condivisa, nonostante lo sforzo economico per un’azienda sia notevole» conclude Piantoni.
«Sono diventato papà di Bruno tre mesi fa e la società ha messo a disposizione la modulistica per la richiesta del congedo direttamente sul sistema interno » racconta Guido Balzano, associate director di una grande azienda di servizi. «Ho ricevuto dai responsabili e dai colleghi una mano tesa al di là del congedo parentale, una vera sensibilità alla paternità ». A fronte di queste poche eccezioni virtuose, in un mondo aziendale che fa ancora fatica ad accettare a pieno la paternità, resta il nodo dei lavoratori autonomi. L’Italia è il Paese con la più alta percentuale di partite Iva in Europa (quasi 5 milioni, il 22% delle persone in età lavorativa). E in questi casi, dove si ha diritto al congedo di paternità solo in sostituzione a quello della madre, la maggior parte degli uomini ci rinuncia.