La Stampa, 12 maggio 2022
Biografia di Shireen Abu Akleh
Rakza, dicono i palestinesi. Shireen Abu Akleh era una giornalista rakza, stabile, una parola spigolosa che tiene dentro la forza tranquilla della narratrice più popolare e il bisogno di un popolo di essere narrato. Per venticinque anni, giorno dopo giorno, guerra dopo guerra, Shireen Aru Akleh è stato il volto e la voce di una terra rivendicata come un simbolo da mezzo mondo ma poco conosciuta nel profondo. E lei la raccontava da cronista. Una cronista palestinese con passaporto giordano, perché chi nasce a Gerusalemme est non ha diritto a quello israeliano, ma adamantina nel dichiarare il proprio preciso punto di osservazione, senza la boria un po’ altezzosa del presunto giornalismo obiettivo.
Shireen Abu Akleh raccontava la storia dei palestinesi.
«Ti giungeva voce che era successo qualcosa, accendevi al Jazeera e lei era già lì, sul posto, taccuino in mano e telecamera al seguito, sempre la prima, velocissima nel portare lo spettatore al centro dell’evento» ricorda padre Ibrahim Faltas, il francescano di origine egiziana che riveste oggi il ruolo di Discreto della Custodia di Terra Santa. L’ha conosciuta professionalmente all’inizio degli anni Duemila, durante l’assedio alla basilica della Natività di Betlemme, l’apice della seconda intifada, quando lui negoziava dall’interno della chiesa assediata. Shireen Abu Akleh era lì per al Jazeera, dove aveva iniziato a lavorare nel 1997, un anno esatto dopo il debutto della CNN araba, il ribaltamento della prospettiva orientalista. Fino ad allora i giornalisti arabi erano stati poco più che stenografi della propaganda dei rispettivi regimi, figurarsi le giornaliste.
A sfogliare a ritroso la pagina Facebook di Shireen Abu Akleh – già trasformata in una sorta di no luogo sacro come sacro è stato ieri il viaggio del cadavere da Jenin a Ramallah, un corteo funebre lungo decine di villaggi – c’è tutta la cronaca di questo ultimo quarto di secolo palestinese. Rabbia, speranza, violenza, passione. E in primo piano lei, sorriso ampio, eloquio dettagliato, presenza rakza, stabile. Ci sono i funerali di Yasser Arafat e la sepoltura simbolica di un’epoca, c’è il ritiro israeliano da Gaza e poi la faida fratricida tra Hamas e Fatah, il blocco della Striscia, la divaricazione politica con la Cisgiordania dopo cui divenne sempre più difficile per i reporter di Ramallah attraversare il valico di Erez e lei di fatto non tornò più, limitandosi a seguire le guerre di Gaza dall’esterno, giorno e notte, 2008, 2009, 2012, 2014, 2021. L’altroieri, ieri, il vulcano che tuona ancora in queste ore e minaccia nuove eruzioni, nuove vittime.
La Rete fissa l’istante, un frame declinato sempre al presente. E la vedi, viva. Capitava spesso d’incontrarla alle conferenze stampa, alle riunioni dell’UNRWA, l’agenzia Onu per i rifugiati con cui aveva lavorato all’inizio, quando, dopo la specializzazione in giornalismo conseguita ad Amman, collaborava con Voice of Palestine. Ma soprattutto capitava d’incontrarla in strada. E non c’era famiglia palestinese del villaggio più sperduto che non la conoscesse. Perchè se Shireen Abu Akleh ha portato un pezzetto di mondo nelle case del suo popolo, seguendo da inviata la Brexit o il cammino a piedi dei rifugiati in fuga dall’America di Trump e diretti in Canada, ha soprattutto fatto il contrario, spingendo sul palcoscenico globale le storie e le persone che erano invece solo icone astratte, le famiglie sgomberate dalle case di Sheik Jarrah, lo studente tetraplegico e geniale della Birzeit University, i fan della Tarband Band scatenati sotto i riflettori del Palestine International Festival, i ragazzini della povera valle di Abziq, a nord di Tubas, pietre senza ulivi, la vita, il dolore, le contraddizioni.
«Shireen ha cominciato a fare la cronista quando, nel mondo arabo, questo mestiere era una specie di ufficio stampa del potere» spiega al Guardian l’amica Muzna Shihabi. Una cronista, appunto: occhi, orecchie, olfatto. Da qualche tempo aveva cominciato a studiare bene l’ebraico. E’ questa immagine che resta, potente, oggi che su tutte le storie raccontate in venticinque anni s’impone quella bruciata in pochi istanti alla periferia di Jenin. Una prima raffica di colpi, una seconda, lei a terra tra le piante col volto sfatto sotto l’elmetto con scritto "Press": la fine.
A un certo punto sapremo com’è andata esattamente, oppure no. Mentre il fratello Tony torna dall’Africa dove vive per lavoro da quando entrambi i genitori sono morti, palestinesi e israeliani si accusano a vicenda. Il conflitto delle parole che, a Gerusalemme come a Kiev, impedisce che il sangue versato si secchi e sbiadisca.
Shireen Abu Akleh aveva 51 anni appena compiuti, un passaporto americano oltre a quello giordano e un cagnolino bianco. Aveva in mano la Storia. Ne sono morte troppe raccontandola come lei.