La Stampa, 12 maggio 2022
Intervista al poeta ucraino Serhij Zadan
Serhij Zadan è un poeta, romanziere, saggista, traduttore ucraino. Probabilmente il più noto e volitivo artista del Paese, le sue opere sono tradotte in numerose lingue (in Italia da Voland). Ha scritto 12 libri di poesia e 7 romanzi e vinto più di una dozzina di premi letterari. Ha partecipato alla Rivoluzione Arancione prima, nel 2004, nel 2013 è stato membro del consiglio di coordinamento di Euromaidan. Dall’inizio dell’invasione russa, Zadan è rimasto a Kharkiv, dove vive da vent’anni, ci incontra in un caffè, punto di incontro di volontari e giornalisti, nel quartiere delle università. «È stata sempre questa - dice - l’anima di Kharkiv, uno dei maggiori centri scientifici, industriali e culturali-educativi del Paese. Questa è una terra di persone che cercano la strada per essere indipendenti».
Dovesse riassumere lo spirito della città, cosa direbbe?
«Kharkiv è il confine. Da un lato Kharkiv è terra di fusioni, incrocio tra Kiev, il Caucaso, la Crimea e Mosca. Dall’altro è una città interamente e profondamente ucraina. Ma è la più vicina alla Russia, è stata la "capitale rossa" dal 1919 al 1934, e uno degli scopi dell’invasione, almeno questa è la mia analisi, era - da parte dei russi - occupare Kharkiv per ripristinare qui una base, ritenendo che lo spirito della città fosse ancora quello del 1919. Evidentemente sbagliavano».
Kharkiv è il confine, ha detto. Cosa significa questa parola per lo Zadan scrittore e poeta?
«Il confine qui non è solo una metafora. È un elemento costitutivo della nostra identità. Ho trascorso tutta la mia vita nell’est. Sono nato a Starobilsk, cittadina nella regione orientale di Luhansk, a 10 chilometri dal confine russo, poi ho scelto Kharkiv per vivere. Il confine è un dato fisico - lo vedo, c’è - ed emotivo, perché equivale a una minaccia. I russi stanno cercando di spostarlo. Non è un assedio solo fisico, per noi, è un assedio della nostra soggettività».
Quanto l’attribuzione di questo confine ha definito le identità in Ucraina e in Russia, negli ultimi anni?
«Prima che la guerra iniziasse, il confine era uno strumento di minaccia, l’influenza post-imperiale che la Russia usava per spaventarci. La loro propaganda, in altre parole, attribuiva la nostra identità a un passato che ci vedeva parte della Russia. Il confine, dunque, per loro, andava e va eliminato, rappresenta - esistendo - tutto quello che la Russia vuole distruggere, la nostra identità nazionale. Per noi è un principio da difendere. Non è solo una separazione tra due Stati, ma un muro tra due visioni del mondo».
Non solo una guerra che minaccia l’integrità territoriale, dunque.
«È una guerra di mentalità, e prospettive. Mi pare chiaro che ci sia un totalitarismo da una parte, un Paese animato da politiche imperiali, e dall’altra un Paese che si sta sforzando di costruire una democrazia fondata su un sistema di valori. In più credo che questa guerra abbia a che fare col modo in cui analizziamo e viviamo il tempo della Storia. I russi resistono ancorati a un passato che hanno mitizzato, noi ucraini stiamo cercando di accelerare il tempo. L’Ucraina è cambiata tanto dal 2014, stiamo progredendo. Mi pare che, al contrario, qualcosa in Russia sia andato in pezzi negli ultimi vent’anni. Per questo dico che la guerra che subiamo è la collisione di due modelli, prima ancora che di due Stati».
In Ucraina sono stati rimossi monumenti che celebrano gli scrittori russi dalle strade, dalle sedi universitarie, dalle piazze e dai musei. E’ una disposizione a cui stiamo assistendo anche in Italia e in altri Paesi europei. Ritiene giusto, opportuno, utile, eliminare i riferimenti culturali russi? Non pensa che potrebbe alimentare radicalismi?
«Le rispondo con una premessa. Noi crediamo che parte dell’identità russa si fondi sulla negazione della soggettività ucraina. Quindi non lo ritengo un atteggiamento punitivo, penso che quando rimuoviamo un monumento che celebra la cultura russa, qui, rimuoviamo l’espressione di uno Stato coloniale. E, mi permetta di essere chiaro su un punto: non ci sta uccidendo Putin, ci stanno uccidendo i russi. Gli stessi che si definiscono una nazione di alta spiritualità. Quindi penso che, sfortunatamente, la rimozione dei simboli sia una parte di questa guerra tra due culture inconciliabili».
Anche le politiche linguistiche definiscono l’identità di una nazione. I rapporti tra l’Ucraina e la Russia passano anche per questo, lingue vietate, lingue nascoste, lingue rivendicate.
«La lingua è indicazione di identità. Ma occorre chiarezza, a Kharkiv le persone di lingua russa non erano ostili al sentimento nazionale ucraino, l’ha dimostrato la reazione della città all’occupazione. Le dirò di più, da due mesi, anche chi prima riteneva importante proteggere la tradizione linguistica russa, ha cominciato a rinnegarla. Vogliono dimostrare, parlando ucraino, di appartenere a un altro luogo, che non ha più niente a che fare con la Russia. Vede il paradosso? La Russia rifiutava di accettare il nostro diritto ad esistere, anche ostacolando l’uso della nostra lingua. E, invadendoci, ha rafforzato il nostro sentimento nazionale, esattamente quello che volevano negare. Ma il prezzo che stiamo pagando è davvero troppo alto».
Pensa che esista una lingua comune per parlare con chi è oltre confine?
«Non so rispondere a questa domanda. Penso che una lingua comune si possa costruire solo con la premessa della verità. E che debba fondarsi sull’ammissione della realtà. Ammettere cioè di essere occupanti, di aver consumato dei crimini di guerra. Se questo non accade, e se non accadrà, sarà difficile trovare la strada per un dialogo o una riconciliazione tra i popoli. E, a essere onesto, per la mia percezione della società russa, non vedo precondizioni affinché questo si verifichi».
La poesia è sempre tesa a trovare un equilibrio tra l’oblio e la memoria. E’ uno dei versi di un poeta, nato in Ucraina, a cui la sua opera guarda e si ispira, Paul Celan. Cosa fa la poesia per aiutare a processare l’esperienza della guerra?
«La poesia non combatte e nemmeno influenza le guerre. La poesia aiuta a riflettere e, forse, ci aiuterà a restare umani, in futuro. A non alimentare l’odio. Ma, ripeto, è un tema del futuro. È prematuro pensarci oggi. Forse il presente non è pronto per la poesia».
Di cosa ha bisogno, il presente?
«C’è momento per tutto. Arriverà il tempo per la visione epica di questa guerra: romanzi, film, opere teatrali. Ora è il momento dell’aderenza alla realtà. Che è più dolorosa, spaventosa della finzione ma da cui, mi pare, le persone non vogliano evadere. Restiamo aggrappati alla realtà, testimoni della guerra che va detta con parole semplici».
Cos’è la paura?
«Paura è l’impotenza. Temere di perdere qualcosa di importante senza poter influenzare gli eventi. È l’inutilità della volontà».
E la libertà?
«La libertà è superare quella paura».