Corriere della Sera, 12 maggio 2022
Su "Guerra infinita" di Lorenzo Cremonesi (Solferino)
«Se esiste un Dio, ieri a Gerusalemme non c’era». Inizia così, il 16 gennaio 1988, sul «Corriere», la cronaca di Lorenzo Cremonesi sul pestaggio dei fedeli islamici che affollavano la moschea al-Aqsa. Lui era arrampicato «sui tetti bombati delle case arabe prospicienti la spianata», ha visto e scrive. Centinaia di soldati in tenuta antisommossa, un po’ di slogan furenti urlati da un gruppo di giovani arabi e «una pioggia di candelotti inonda l’aria di fumo bianco irrespirabile. Le grida delle donne si uniscono al rumore di centinaia di persone in fuga e al gracchiare delle ricetrasmittenti dell’esercito. Il muezzin invita alla calma». Lo colpisce il dettaglio di un vecchio che «non trovava le scarpe. È rimasto un po’ più a lungo a cercarle. Allora due soldati lo hanno alzato di peso per il bavero tempestandolo di pugni...».
Apriti cielo! Il giorno stesso, racconterà, «numerosi amici e conoscenti mi voltarono le spalle, persino mia nonna Esther telefonò rabbiosa da Milano». Come aveva osato, il ragazzo venuto dall’Italia per approfondire i suoi studi su Israele e il mondo ebraico, scrivere cose così diverse dalle versioni standard? «Ma quegli episodi li ho visti in diretta. A chi mi criticava ripetevo: “Venite qua, e poi mi direte che cosa raccontereste voi”». Per dirla con lo storico Michele Sarfatti: «Lui è fatto così: è uno aperto a discutere sui temi più divisivi, ma se una cosa la vede coi suoi occhi la scrive».
Non era la prima volta che veniva contestato, non sarebbe stata l’ultima. Anzi, via via che accumulava esperienze di guerra passando da Gaza all’Afghanistan, da Beirut all’Iraq, dalla Siria all’Ucraina, si è sempre più convinto che dai burrascosi anni da liceale a Milano, anni così ricchi di fantasia e illusioni, speranze e delusioni, errori e sconfitte, qualcosa di buono sia venuto davvero. L’insegnamento a diffidare della «verità» diffusa: «Dubita, dubita sempre, non credere mai alle versioni ufficiali, specie in tempi di guerra o di crisi. Da allora il mio primo istinto, quando leggo un comunicato o ricevo un bollettino governativo, è di verificare, esigere conferme, chiedermi i motivi della sua diffusione. Perché in tempi di conflitto tutti mentono: persecutori e vittime, vincitori e vinti. La guerra è il regno della disinformazione, della propaganda, e dunque benedetto sia il giornalista che mette tutto in dubbio...».
Lo scrive nel libro Guerra infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina, in uscita oggi per Solferino, dove ripercorre la sua storia di reporter intrecciandola con più vite parallele. Da quella del ciclista che sfida il deserto infuocato per arrivare in bici da Gerusalemme al Golfo di Aqaba («Ai posti di blocco i militari mi offrivano ghiaccio da spezzare nelle borracce, dopo un’ora sarebbe stato possibile farci il tè») a quella dell’alpinista che nel 2004 trascina Lino Lacedelli a tornare ottantenne (sulle sue gambe!) a rivedere il campo base del K2 conquistato mezzo secolo prima per telefonare da lassù col satellitare a Walter Bonatti e tentare («troppo tardi...») una pacificazione.
Punto di partenza dei ricordi: la visione in un momento di terrore assoluto a Eriha, mentre aspettava l’irruzione da un istante all’altro dei soldati di Bashar Assad nello sgabuzzino dove un eroico oculista siriano gli aveva dato rifugio rischiando lo sterminio della sua famiglia, di «un cavallino bianco dal lungo pelo senza sella». Quello al quale si era aggrappato l’alpino Ugo Balzari, amico di famiglia, nella tormenta della ritirata di Russia: «I fantasmi di quel passato infondevano speranza: se si era salvato lui (...) forse anch’io avrei potuto cavarmela...».
E se la cavò davvero. Come sarebbe avvenuto, su fronti diversi, tante altre volte. Compresa quella in cui fu rapito da un gruppo armato palestinese nella Striscia di Gaza, nel 2005. Veniva da tre anni su e giù con l’Iraq e una ventina tra Israele e zone palestinesi. Se la cavava con le lingue, conosceva i luoghi, non andò nel panico. Tanto più quando s’accorse che sbirciavano in tivù un film porno: «Chiaramente non sono integerrimi jihadisti», pensò. Offrì loro di spartire una bottiglia d’acqua, spense un cellulare prima che glielo trovassero e diede lui la notizia del sequestro al «Corriere» perché anche Cnn e Al-Jazeera ne parlassero quietando i nervosissimi rapitori... Dopo un po’ questi raccontavano già a Lorenzo i loro guai, l’acqua potabile, le medicine, la disoccupazione... Andò a finire che non chiesero neppure un riscatto: volevano essere assunti come poliziotti da Abu Mazen. Accontentati. E finì in farsa lungo la rete di confine quando, a forza di passarsi l’un l’altro i kalashnikov per scavalcare, Lorenzo si trovò in mano tutti e tre i mitra, coi guerriglieri disarmati di là del confine. Questa poi!
Il cuore del libro, però, sono i ricordi gonfi di orrori, morti, lutti, sangue, pianti, profughi, macerie. Troppe macerie. Comprese quelle di Milano ancora qua e là visibili quando lui era bambino: «Turbava vedere nei caseggiati sventrati le piastrelle dei bagni a cielo aperto, le tubature spezzate, i monconi di travi carbonizzate, persiane semi-divelte eppure ancora caparbiamente agganciate agli ultimi centimetri di muro sbrecciato prima del vuoto, brandelli di vestiti impigliati alle traversine...». Ed ecco riaffiorare una gita con gli sci sulla neve che copriva il Monte Stella a San Siro dove papà, muto sul suicidio del padre Cesare rovinato dai bombardamenti, disse a Lorenzo: «Qui sotto stanno le macerie delle nostre case».
Ecco ancora i racconti di nonna Esther sulla Shoah a cui era sopravvissuta, l’orgoglio per la nascita d’Israele, gli sbuffi per quel nipote «con al collo la kefiah bianca e nera», la curiosità di Lorenzo verso quella cultura fino a scegliere, pur considerandosi «non ebreo», di presentarsi come volontario nel kibbutz di Snir, nel Golan, vicino alle fonti del Giordano. Una scelta, per quel che valgono gli schemi di allora, «di sinistra», ma scambiata da vari nemici di Israele e degli Usa, soprattutto nei primi tempi della collaborazione al «Corriere» diretto da Piero Ostellino e della successiva assunzione, per un’opzione sionista destrorsa. Giudizi contrastanti. Via via aggiornati...
«Entro in Ucraina sorpreso di non essere sorpreso. O meglio, sono colpito dalla rapidità degli eventi, dalla brutalità con cui Vladimir Putin ha messo in atto il suo progetto di ricreare la potenza russa perduta con la fine della Guerra fredda», scrive il 24 febbraio scorso, «ma non mi sorprende la guerra in Europa, il fatto che la dinamica dello scontro militare torni a imporsi sulle nostre esistenze di europei illusi che la pace perpetua fosse un dato assodato». Del resto, sottolinea, sono quarant’anni che scrive di guerra, «mentre in Europa si magnificava questo periodo come uno dei più pacifici nella storia».
Quarant’anni passati a «dover capire» cosa succedeva. A raccontare nel 1982 le distanze abissali tra il lussuosissimo hotel di Beirut dove il maître si scusava tra vini d’élite e modelle scosciate d’aver servito un dessert «troppo liquido» («sbalzi di corrente, ah, monsieur , la guerre...») e il vicino campo profughi di Sabra e Chatila annientato un mese dopo dalle milizie cristiano maronite. A denunciare nella Kabul talebana del 2000 il soffocante grigiore rotto solo dalla striscia di perline rosse e gialle alla caviglia di una donna di grigio infagottata. A narrar la morte di Maria Grazia Cutuli che il mese prima era stata confermata come inviata nell’area tra Pakistan e Afghanistan: «È il più bel regalo di compleanno della mia vita!». E i riti dei Morti nei nostri cimiteri a confronto coi cimiteri musulmani del Medio Oriente e in Asia, «dove le tombe si confondono con le case, come a Kabul, Kandahar o Peshawar: quartieri di morti intrecciati con quelli dei vivi» e «i bambini a giocare tra le lapidi».
Per non dire del «fascino oscuro della guerra». Celebrato ad esempio da Chris Hedges del «New York Times»: «La guerra conserva la sua forza d’attrazione perché, malgrado le distruzioni e i massacri, può darci quello che veramente desideriamo. Può darci uno scopo, una ragione di vivere. Solo in mezzo a un confitto la meschinità e l’insulsaggine di tanta parte della nostra vita ci appaiono evidenti... La guerra diventa un elisir inebriante. Ci rende decisi, ci offre una causa».
Ma è così? Lorenzo Cremonesi e Paolo Dall’Oglio, il gesuita che aveva dedicato la vita a studiare l’Islam e teorizzava il dialogo e diceva messa in arabo chiamando quindi anche il Dio cristiano Allah, passarono due giorni e una notte a parlarne, nel piccolo e povero monastero tirato su a Mar Musa, a nord di Damasco, nel 2012. Padre Paolo gli regalò il suo ultimo libro intitolato Innamorato dell’Islam, credente in Gesù (Jaca Book) e gli disse che già prefigurava la propria morte: «Mi accennò a come fosse importante ai suoi occhi essere disposti a morire per una causa che si ritiene giusta. La poneva come una questione non solo di coraggio, ma anche di intelligenza e capacità di offrire la propria vita al momento giusto, se utile al raggiungimento dell’obiettivo prefissato. A suo dire, la paura di morire non poteva impedire di vivere sino all’estremo le proprie convinzioni». Vivere, insomma, non poteva essere fine a sé stesso: «Per me, inconsciamente, la preoccupazione di non fallire la morte è rimasta molto viva e interviene nelle mie scelte...».
Da allora, di lui, non sappiamo più nulla...