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 2022  maggio 12 Giovedì calendario

Elogio della brevità dell’Eurovision

La più grande ostinazione degli italiani non è quella a non pagare le tasse. Non è quella a farsi fare falsi certificati di malattia, d’invalidità, di gravidanza a rischio. Non è quella a parcheggiare in doppia fila. Non è quella a credere che tutti quelli che fanno più carriera di loro siano raccomandati. La più grande ostinazione degli italiani è quella a ritenere normale che le prime serate televisive durino quattro ore.
Non è sempre stato così, noi vegliarde ce lo ricordiamo. Ho imparato metà dell’inglese che so (la metà che non ho imparato da Deejay Television) dalle rassegne cinematografiche di seconda serata di Rai 3, le domeniche in cui mandavano in onda Howard Hawks. Sì, c’è stato un tempo (un secolo fa) in cui la tv pubblica mandava i film degli anni Trenta sottotitolati, in seconda serata, e la seconda serata iniziava alle dieci e mezza.
Era un altro secolo, certo. Un secolo in cui le prime serate iniziavano alle otto e mezza, dopo il tg, perché non sentivamo il bisogno di quella mostruosità chiamata “access time” (quando c’inventiamo nomi inglesi per tipicità italiane non è mai buon segno); una fascia oraria fatta o di Gabibbo o di quiz in cui ti chiedono se Paolo e Francesca siano due personaggi di Dante, di Moccia, o di Lucio Dalla, e se indovini vinci un sacco di soldi perché i tuoi sacrifici intellettuali e le sudate carte vanno premiati.
Quelli della televisione ti dicono: eh, ma il dato. Eh-ma-il-dato, tradotto dal frasifattese di settore, significa: se i quattordici spettatori che mi hanno guardato tra le dieci e le undici io li tengo lì non mandandogli i titoli di coda fino all’una di notte, se quei quattordici navigator io li tengo lì anche quando la gente normale (quella che la mattina si sveglia per andare a lavorare) ha spento, i quattordici che alle dieci erano un uno per cento saranno – all’una – il venti per cento, e facendo la menzognera media io domani potrò inviare comunicati stampa in cui dico che il dieci per cento degli italiani mi guardava.
Ci sarebbero mille domande da fare, a partire da questa truffa concordata. La principale delle quali è: a chi importa? Posto che l’Auditel serve agli investitori pubblicitari – e quelli scemi non sono, e guardano quante persone c’erano neanche davanti alla tua trasmissione, ma proprio davanti al loro spot nella tua trasmissione – il comunicato stampa a chi serve? Alla vanità, come le presentazioni dei libri?
Oppure: in un mondo in cui i numeri sono andati definitivamente a puttane, e spacciamo per grandi successi produzioni di Netflix o di Prime delle quali nessuno conosce il numero di spettatori (tranne le piattaforme stesse), e assistiamo allo spettacolo d’arte varia di dirette Instagram con ottanta spettatori (sulle dirette Instagram c’è l’impietoso contatore ben visibile) fatte da gente che devi supplicare perché venga ospite nel tuo programma televisivo visto da tot milioni di persone però sta lì male illuminato a parlare in pubblico sì e no ai parenti, in un mondo in cui i numeri non dicono più niente o dicono quel che abbiamo deciso di proiettargli addosso noi, com’è possibile che ancora ci occupiamo di quante persone con la macchinetta dell’Auditel in salotto abbiano visto il tal programma?
Oppure: ma è possibile che in tutto il mondo abbiano le prime serate da un’ora e quasi solo noi no, noi che pure se compriamo la sitcom ucraina da venticinque minuti poi sfiniamo il volenteroso spettatore mandandone in onda quindici puntate in una sera pur di finire a un’ora mannara?
Oppure: ma questa cosa del dato che-lo-fai-solo-allungando-allo-sfinimento è vera? No, ovviamente. Lo sappiamo ma di solito stiamo zitti (Crozza fa parecchi più spettatori di Propaganda con un’ora di trasmissione invece di quattro, ma è antipaticissimo e quindi non sarò certo io a dirlo: in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti).
Solo che poi arriva l’Eurovision. Questo, ci tengo a dirlo, non è un articolo sull’Eurovision. Perché io, ci tengo a dirlo, non ho mai visto un minuto di Eurovision in vita mia. Perché a me, ci tengo a dirlo, le canzoni dei viventi fanno schifo, ascolto solo roba di quando c’era la lira, e a Sanremo quando cantano ne approfitto per lavare i bicchieri (avrei detto «per andare a prendermi da bere», ma per la reputazione da alcolizzata vorrei aspettare la settimana prossima, questa qui ne ho già una da putiniana – domani ne parliamo, fa piuttosto ridere).
L’Eurovision è tutto ciò che detesto: le baracconate (se non sei Renato Zero, fai il piacere di vestirti come una persona sana di mente), il tifo del Twitter, il kitsch che diventa mainstream, l’intelligentismo percepito. Non lo guardo, e avrei scommesso che – come tutti i fenomeni da Twitter, da Calenda in su – il paese reale lo ignorasse. E invece: cinque milioni e mezzo di spettatori, che vuol dire che le vegliarde hanno scelto il nuovo che avanza; mi hanno tradito, smaniose com’erano di lanciare le mutande a Blanco (ne avevano tenute un paio di riserva rispetto a quelle che già gli avevano lanciato guardando Sanremo). Credevo d’essere paese reale, mi scopro vegliarda di nicchia.
Evidentemente le altre vegliarde sapevano una cosa che io ignoravo: che l’Eurovision aveva quasi gli orari della tv con cui siamo cresciute. Che sì, i lustrini, le canzoni brutte, gli sconosciuti per cui non si sa perché dovresti tifare, ma: hanno cominciato prima delle nove, e alle undici e un quarto avevano già finito. E il giorno dopo hanno potuto fare il comunicato «ventisette per cento», che c’è gente che è una vita che va in onda fino all’ora alla quale alle feste della nostra gioventù arrivavano le brioche della colazione, e il ventisette per cento continua a sognarselo.
Sì, la tv che diventa evento, sì, la scaletta ritmata, sì, la rava, sì, la fava (quella con le vegliarde funziona sempre moltissimo); ma: a mezzanotte si dormiva. Una cosa che gli spettatori di prima serata non potevano fare da tanti di quegli anni che l’altro giorno riportavo proprio qui un dibattito di vent’anni fa, quando il problema della tv era che il varietà di Morandi e quello della De Filippi, pur di racimolare un punticino percentuale, finivano a orari sempre più mannari.
C’è una sola grande lezione che dobbiamo trarre dal successo della prima delle serate dell’Eurovision (la seconda è stasera), e non è che Cattelan su Rai 1 può funzionare, e non è che gli adulti debbano sapere chi siano i Maneskin, e non è che abbiamo nostalgia di quando se rispondevi «Europa Europa» al telefono potevi vincere dei gettoni d’oro: è che sono molti anni che desideriamo di poter andare a letto presto, la sera.