la Repubblica, 11 maggio 2022
Biografia di Vincenzo Alvaro
L’ultima cena l’hanno celebrata come da tradizione il Giovedì Santo. Si sono ritrovati tutti per festeggiare e rinsaldare i legami. A capotavola siede Vincenzo Alvaro, l’uomo che ha gestito ilCafé de Parised è riuscito a passare indenne attraverso le inchieste più clamorose dell’antimafia. Alla sua destra, lungo la tavolata che si snoda per una sala intera del Binario 96tra caciocavalli e prosciutti appesi, i familiari più stretti: i maschi accanto al patriarca, le femmine in fondo tra passeggini e bambini.
Sono proprio loro gli unici a tenere un tono di voce comprensibile a chi è a distanza lasciando trapelare un accento milanese, segno dei rapporti con i compaesani che si sono fatti rispettare in Lombardia. Si possono distinguere anche i ragazzi che giocano a denari e quelli che preferiscono i bastoni: i primi con il look borghese — maglioncino blu, camicia e scarpe buone — gli altri con la felpa con il cappuccio.
Potrebbe sembrare una serata conviviale, tra bis di primi e torte con la panna: semplici clienti come tanti altri in un ristorante anonimo del quartiere Tuscolano frequentato da gruppi di amici e giovani coppie. Alvaro del resto non possiede nulla, quel ristorante da duecento coperti è ufficialmente di Sebastiano Cordiano (arrestato ieri per mafia: secondo gli investigatori ha messo anche a disposizione un ristorante poco più in là,All’Angoletto , per organizzare riunioni di famiglie di ’ndrangheta come i Farao-Marincola di Cirò), eppure tra uno spaghetto mantecato nel grana e un pacchero all’amatriciana, quel nonno calvo, un po’ sovrappeso e dall’aria dimessa, si alza, gira tra i tavoli. Si capisce che è il capo, tanto che è pronto a dispensare consigli: quando gli chiedi se la pizza venga fatta secondo la tradizione napoletana o bassa come vuole quella romana risponde: «Noi la facciamo in tutti e due i modi, come la vuole il cliente».
Capacità di adattamento e di mimetizzazione. In realtà la cameriera — una giovane con accento dell’Est Europa — servirà un ibrido, né bassa né alta, ma con tanto di supplì alla ’nduja. Mescolanzadi tradizione e spirito imprenditoriale, proprio come l’inedita diarchia affidata ad Alvaro e ad Antonio Carzo per fondare la prima filiale della ’ndrangheta a Roma.
Il modello imprenditoriale segue quello del Café de Paris , usando prestanome cui intestare bar e pizzerie, ma questa volta la colonizzazione è fuori dalla Dolce Vita e dai radar del centro storico. Zone che danno meno nell’occhio ma densamente abitate come quella che si snoda dalla basilica di San Giovanni verso est. Nulla è lasciato al caso, tanto che gli altri ’ndranghetisti, secondo quanto emerge dall’inchiesta, si rivolgono a lui per gli investimenti nella capitale. Alvaro ha visione, sa dove conviene portare i soldi e sa che per far funzionare un posto serve il controllo. Non sfoggia auto di lusso né vestiti firmati: «A me piace essere umile, terra terra» spiega al suo socio quando non accetta di salire su una Ferrari.
Lavora dalla mattina alla sera: alza la serranda, si occupa della cassa, dei fornitori. Si muove nella capitale come se giocasse una partita di Monopoli, accumulando sempre nuove proprietà. E così lo puoi trovare al bancone di Zio Melo , un laboratorio di cornetti, pan brioche e torte per comunioni e compleanni: una volta era una sede del Cerbiatto , celebre per lo spot “il cornetto appena fatto” trasmesso dalle prime radio romane.
«I nostri valori sono l’onestà, la trasparenza e la sostenibilità sia ambientale sia aziendale» si legge nel promo dell’attività. Con un avvertimento: «Voi conoscete il nostro metodo: si basa sull’osservazione dei dettagli». Al centro c’è la famiglia: «È sacra. È il valore aggiunto di ognuno di noi» scrive sua figlia Palmira sui social specificando «cit. Papà» con tanto di cuoricino. Oggi lei, giurista d’impresa festeggiata alla laurea con una corona d’alloro munita di peperoncini, è finita arrestata per intestazione fittizia con l’aggravante mafiosa. Stessa accusa per la sorella maggiore Carmela (non arrestata) che quando si è sposata in una villa a Cerveteri nel giugno 2017 per i 500 invitati ha previsto un tableau senza nomi buono per mantenere l’anonimato.
Ai domiciliari anche la moglie Grazia Palamara mentre i cognati Antonio e Giovanni Palamara e i nipoti Bruno Palamara e Teodoro Gabriele Barresi sono finiti in cella con l’accusa di associazione di stampo mafioso. Alvaro ‘ndranghetista a sua insaputa, per parafrasare il libro di uno dei suoi avvocati, Fabrizio Gallo, è uscito indenne da tutti i processi. Gli era rimasta solo l’imputazione di intestazione fittizia ma cadendo l’aggravante mafiosa è andata prescritta. Da allora non ha fatto altro che allargare il suo impero. E persino lo scorso giovedì Santo, quando la Cassazione conferma invece alcune confische di un’indagine passata, non si mostra preoccupato. Forse perché molte di quelle attività sono già state svuotate, facendosi beffa dello Stato. E così a fine serata, mentre gli altri prendono ancora amari calabri e ammazzacaffè, l’uomo a capo del primo “locale” di ’ndrangheta dentro una metropoli si mette in disparte. Carta e penna è intento a far di conto: sono gli incassi “del pijamose Roma”, quelli di una città che si è piegata in silenzio al potere della ’ndrangheta, accettandone i quattrini e chinando il capo davanti al rischio delle minacce. Ieri è arrivato il brusco risveglio.