il Giornale, 11 maggio 2022
Un altro figlio morto per Nick Cave
È una notizia che imporrebbe il silenzio, la morte di Jethro, il primogenito trentunenne di Nick Cave, che già perse un figlio sette anni fa. Il ragazzo era nato dalla relazione con la modella australiana Beau Lazenby nel 1991, appena 10 giorni prima del secondogenito del musicista australiano, Luke. Nel 1990 Nick aveva conosciuto una giornalista brasiliana, Viviane Carneiro. Si era trasferito in Sud America, e si era ritrovato così negli stessi giorni ad essere padre di un bambino australiano e di uno brasiliano. Dieci anni dopo, nel 2000, il cantautore aveva avuto due gemelli, Arthur e Earl, dal rapporto con Susie Bick, attrice e stilista britannica. Nel luglio del 2015, Arthur era caduto dalle scogliere di Brighton, dove la famiglia viveva. Un tragico incidente, forse causato dall’ingestione di Lsd.
Jethro aveva conosciuto l’identità del padre a otto anni. Ha intrapreso a sua volta la carriera di modello, e si è ritagliato lentamente un proprio spazio nella famiglia di Nick. A seguito di un alterco con la madre, degenerato in un’aggressione alla donna, Jethro era stato incarcerato all’inizio di quest’anno. Rilasciato il 5 maggio, è scomparso cinque giorni dopo, in circostanze ancora da chiarire.
Prima della nascita dei due figli maggiori, Nick Cave aveva attraversato un periodo di forte dipendenza dall’eroina. I lavori di quegli anni, Your Funeral... My Trial (1986) e Tender Prey (1988) sono tra i più oscuri della sua discografia. Il periodo vissuto in Portogallo aveva in qualche modo determinato un cambiamento, e l’inizio di anni meno claustrofobici. Il blues allucinato e metallico dei primi album berlinesi dei Birthday Party, una sorta di decomposizione finale del rock, aveva lasciato spazio a uno stile da crooner. I suoi testi però avevano continuato a essere densi di riferimenti biblici, martellanti come un’ossessione. Giunto a Berlino dall’Australia, Cave citava sin d’allora come principale fonte d’ispirazione i romanzi sudisti di Flannery O’Connor, scrittrice dalla tormentata religiosità, proveniente dalla Bible Belt, la parte protestante dove sono in maggioranza i cristiani evangelici.
È difficile in queste ore sottrarsi all’idea di accostare il destino di Nick Cave al Libro di Giobbe, il patriarca che il Signore implacabile del Vecchio Testamento sottopone a dolori e sofferenze senza fine. In un’introduzione al Vangelo di Marco, Cave scrisse nel 1998: «Quando comprai la mia prima copia della Bibbia, la versione di Re Giacomo, fu dall’Antico Testamento che fui attratto, con il suo Dio maniacale e punitivo che infliggeva all’umanità sofferente punizioni che mi facevano restare a bocca aperta per la profondità della loro vendetta». Da ragazzino Nick è stato corista nella chiesa anglicana di Warracknabeal, il paesino di duemila anime del Victoria dov’è cresciuto, dove assisteva alle funzioni due volte alla settimana. «Il Dio che sentivo predicare mi sembrava lontano, alieno e incerto. Così mi sedevo nei banchi, nella mia tonaca cremisi, mentre i pensieri canaglia trasudavano sotto la porta sprangata della mia immaginazione. Ma allora, non avevo idea che quei mormorii oscuri venissero da Dio». Ha ormai vent’anni quando la lettura della Bibbia gli rivela un nuovo senso del divino. «L’Antico Testamento parlava a quella parte di me che inveiva, sibilava e sputava contro il mondo. Credevo in Dio, ma credevo anche che Dio fosse maligno e se l’Antico Testamento era testimonianza di qualcosa, era testimonianza di questo. Il male sembrava vivere vicino alla superficie dell’esistenza. Era un libro meraviglioso e terribile, ed era una sacra scrittura».
A metà degli anni Novanta, un prete anglicano diede al musicista da leggere il Vangelo di Marco. Era la prima volta che avvicinava il Nuovo Testamento, di cui aveva sempre diffidato, «perché riguardava Gesù Cristo e il Cristo che ricordavo dai miei giorni da corista era quell’individuo tutto amore che la chiesa usava per fare proseliti». Un album in particolare, The Boatman’s Call, racchiude la nuova visione di Nick, il suo ravvicinamento alla fede dopo anni di apostasia. «Non credo in un Dio interventista», recita il verso più celebre di quella raccolta. In una conferenza di quegli anni, parafrasando l’episodio di Cristo e l’adultera del Vangelo di Giovanni, sottolineò il momento in cui Gesù, prima di dire «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» si china e con un dito scrive sul terreno. «Questo gesto apparentemente distratto, il chinarsi e lo scrivere per terra, è Cristo che accede al Dio in sé. Cristo poi pronuncia la battuta che disarma i suoi avversari, poi si china di nuovo per ri-comunicare con Dio».
Nel suo disco più dylaniano, No More Shall We Part del 2001, Cave intitolerà una canzone God is in the House, Dio è nella casa. Ma il dio con cui comunichiamo, quello che vorremmo in casa nostra, chi è? Cristo o il Signore dalla giustizia imperscrutabile di Giobbe? Viene nella nostra casa per proteggerla o per raderla al suolo? Allora è meglio credere che non sia un dio interventista. Che è forse l’unico modo per chiedere di essere risparmiati.