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 2022  maggio 11 Mercoledì calendario

Intervista a Francesca Valente

«Petri: crisi di aggressività verbale nei confronti del dott. Sorrentino. Chiede di essere dimesso perché altrimenti divento pazzo veramente». Questo è un esempio di uno dei «rapportini», risalente all’ottobre del 1982, degli infermieri del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (o «Spdc») dell’Ospedale Mauriziano di Torino. È su questi «rapportini» che è costruito Altro nulla da segnalare, il libro d’esordio con cui Francesca Valente (classe 1974, torinese) ha vinto il Premio Calvino 2021, e che è appena stato pubblicato da Einaudi nella nuova collana «unici» (pagg. 208, euro 17). Lì, all’«Spdc» del Mauriziano, in uno dei primi «reparti aperti» (anche detti «repartini») dell’Italia post legge Basaglia, lavorava lo psichiatra Luciano Sorrentino, morto nel settembre del 2019, a cui è dedicato il libro.
Francesca Valente, questo è il suo esordio. Di che cosa si è occupata finora?
«Di mestiere sono copywriter, anche se mi sono laureata in Giapponese a Venezia. E ho lavorato per quindici anni come traduttrice e in editoria».
Come è entrata in un mondo così diverso?
«Grazie all’amicizia con lo psichiatra italo-americano Luciano Sorrentino, che iniziò l’assistenza psichiatrica a Torino, all’Spdc del Mauriziano. Sorrentino ha condiviso con me le sue storie e i rapportini degli infermieri, ovvero dei quadernoni, pieni di annotazioni, usati per comunicare fra loro o con i medici, al cambio del turno: strumenti informali, non cartelle cliniche».
E poi?
«Sorrentino me li ha donati e poi ha iniziato a raccontarmi le storie dei suoi pazienti, della sua vita e del suo mondo, senza idea di che cosa fare di questo materiale. Me li ha dati dieci anni fa e ho impiegato molto tempo a rielaborarli».
Come?
«Li leggevo, annotavo cose che mi colpivano, scrivevo racconti, mescolando le storie vere che lui mi raccontava con altre inventate, magari scaturite da una traccia nei rapportini, o da un aneddoto, un dettaglio, una descrizione fisica, una parola... Cercando di mostrare l’esperienza umana che c’era stata, in quegli anni, fra persone che avevano abbracciato la rivoluzione psichiatrica e altre persone, che fruivano di servizi nuovi. Non indago i risultati, e non c’è alcun giudizio sulla psichiatria di oggi».
Qual è l’obiettivo?
«Mostrare una umanità che parla di tutti noi, e non di casi clinici: sono storie che possono raccontare a tutti di una esperienza di libertà e di un modo nuovo di rapportarsi al paziente psichiatrico. L’idea è che tutti possano trovare qualcosa di proprio, di familiare».
Come ha costruito le storie?
«I rapportini sono molto lucidi, raccontano il paziente nei fatti, riportando quello che è successo e che cosa ha fatto, nel loro linguaggio variegato, che cambia con l’infermiere di turno. Sono fotografie nitide che, proprio per questo, mi hanno lasciato libera nella narrazione e nello scegliere il tono del racconto che vi ho costruito sopra».
Per esempio?
«Il caso di Libera, una sconosciuta di cui ho immaginato la vita, passata e futura. Una donna come tante altre negli anni ’50 e ’60, con una vita semplice, medio-borghese, che a un certo punto, all’interno di una vita normale, entra in un suo giardino segreto... A volte invece è nato prima il racconto e poi ho trovato la traccia a cui ricondurlo, come con il calzolaio».
Chi è il calzolaio?
«Un uomo che era stato in un manicomio terribile. Gli infermieri offrono una visione netta: trasportano dal mondo visionario della narrazione a una descrizione nei fatti. Poi c’è la storia di Carlo Colnaghi».
L’attore.
«Mi premeva raccontare gli otto anni in cui, mentre è paziente di Sorrentino, torna sulle scene, a teatro e al cinema, lavora con Daniele Segre e fa due film, di cui uno arriva alla Mostra di Venezia: è la dimostrazione del successo di un’idea, quella di togliere le persone dalla strada e offrire loro una seconda possibilità. Però la storia inizia con Carlo che si presenta in reparto, nel 1980, quindi le sue tracce sono nei rapportini. Altre volte è bastato un aneddoto».
Quale?
«La storia di Salvatore. Sorrentino mi aveva raccontato di essere andato a parlare con una persona barricata nell’infermeria delle Officine Grandi Motori; questa persona, durante tutto il turno in fabbrica, mimava il motore di una moto Guzzi».
L’uomo che Sorrentino e l’infermiere Tornior vanno a recuperare mentre cerca di «riparare» i macchinari di Medicina nucleare?
«Sì, e il fatto è che Sorrentino e Tornior usano il suo stesso linguaggio: è il dialogo, che loro preferivano a qualsiasi altro approccio, o alla contenzione. Dice di come il rapporto col paziente fosse cambiato e si basasse sulla fiducia, sulla autenticità della relazione e su un dialogo di pari livello. In questa esperienza era cruciale mettersi in una relazione di verità e di speranza col paziente psichiatrico, e non trattarlo più gerarchicamente, in un rapporto di potere dall’alto al basso».
Nei rapportini, i pazienti sono «i paz.»: ironicamente, sembra l’abbreviazione di «pazzi».
«Non credo che il doppio senso fosse voluto, però, attraverso l’abbreviazione, veniva fuori un riferimento diretto alla follia della persona di cui parlavano».
Anche gli infermieri sono protagonisti?
«Ho preso in prestito la loro voce diretta. Sono stati fondamentali nella rivoluzione che è stata fatta: erano loro a trascorrere tutto il tempo fianco a fianco del malato psichiatrico. Da carcerieri e custodi – prima la cura era la custodia – hanno dovuto stringere una relazione col paziente, basata sull’umanità. La mia non è una apologia degli Spdc, né dico che tutti gli infermieri fossero buoni...».
Tornior, però, lo era?
«Un caso emblematico. Mostro la sua umanità e questa capacità di stare con l’altro, pur nella sua natura un po’ brusca e selvatica, di cacciatore e contadino, come molti suoi colleghi: sapeva parlare con le persone, era un gigante buono».
Nel libro, umorismo e commozione si mescolano. È il linguaggio che lo consente?
«Credo fosse insito nel lavoro che stavano facendo... La mia scrittura doveva riflettere il senso di quell’esperienza e, quindi, un modus operandi che non poteva prevedere tragicità o rigidità eccessive. Parlando con medici e infermieri ho scoperto una leggerezza e una immediatezza che nascevano dalla capacità di ascolto e di attesa, nel lasciare che una situazione drammatica si sedimentasse, restando presenti e attivi e trovando una soluzione che, alla fine, poteva venire solo da un approccio ironico».
E la scrittura?
«Doveva ricalcare questo approccio lieve, un po’ ironico, per cogliere gli aspetti più nascosti della persona, guardata e ascoltata nella sua interezza; aspetti nascosti che, prima, restavano tali, poiché si agiva solo sulle manifestazioni più superficiali della follia, classificando le persone e mettendole insieme, in reparto, in base a esse».
Come ha deciso che queste storie sarebbero diventate un libro?
«Forse quando ho smesso di voler dar loro una forma... Ho capito che questo aspetto frammentario aveva un senso suo, giusto per questo argomento: parlo di frammenti di umanità e di vite, mai comprensibili nella loro interezza né visibili tutte assieme ma che, messe insieme, mostrano questo significato. C’è un rapporto diretto tra forma e sostanza».
A quali storie è più affezionata?
«Forse a quella di Carlo, per il valore simbolico. E alle bambine invecchiate di Villa Rosa – Il Fiordaliso: pazienti geriatriche fra i 70 e i cento anni, che avevano vissuto in manicomio per 40, 50, anche sessant’anni e che, già prima della legge Basaglia, avevano cominciato a vivere in comunità ospiti, grazie ad assistenti sociali, infermieri e medici. Donne dolcissime, che mi sono rimaste nel cuore».