il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2022
Vita da cinghiale a Roma
Nun c’è più trippa. Il cinghiale romano, dopo lustri di indisturbata ed erratica frequentazione della città eterna, entra a zampe pari nella sua era pandemica.
È arrivata, funesta come il Covid, una piaga virale: la peste suina. I focolai più estesi sono in Liguria e Piemonte, con già centinaia di bestie infette, ma i primi casi hanno raggiunto la comunità capitolina. La malattia non si trasmette da animale a uomo, ma rischia di fare stragi anche tra i suini non selvatici, con ovvie conseguenze su allevamenti e filiera alimentare.
Bisogna intervenire, dunque. E sotto la patina della preoccupazione sanitaria, le autorità pubbliche si leccano i baffi: con il pretesto del contenimento della pestilenza, si sta mettendo a punto uno sterminio di massa. Lo chiamano dignitosamente “abbattimento selettivo”, un termine pudico per un’operazione che si annuncia piuttosto brutale. Ormai in emergenza totale per le strabordanti scorribande dei cinghiali anche nelle aree urbane, è un’opportunità straordinaria per liberarsi da quella che viene percepita come una delle tante piaghe di Roma.
Il ministero della Salute e la Regione Lazio, che lavorano insieme, hanno prodotto quanto segue: una zona rossa all’interno del grande raccordo anulare – confine nord il Gra, confine sud Circonvallazione Clodia, confine est il Tevere e confine ovest via Cassia – all’interno della quale è fatto “divieto di alimentazione, avvicinamento e disturbo ai cinghiali”; “divieto di organizzare eventi, ivi inclusi i pic-nic”; si raccomanda “la recinzione dei cassonetti dei rifiuti per inibirne l’accesso” e una serie di misure che preparano la più radicale: il cinghialicidio di massa. Un tema – la riduzione drastica della popolazione ungulata – che mette d’accordo il sottosegretario alla Sanità Andrea Costa, il governatore Nicola Zingaretti e il sindaco Roberto Gualtieri (che pure ha cavalcato la questione a fini elettorali e poi si è limitato a osservare).
Tutti felici, escluso il cinghiale. Sarà una suggestione retorica, ma pare che in alcune zone dell’Urbe gli ungulati e i romani si siano presi le misure a vicenda e abbiano iniziato a somigliarsi in maniera sempre più riconoscibile. Il cinghiale romano si è adattato ai ritmi, ai rituali e ai valori della città: è naturalmente aggressivo ma in fondo bonario, scende in strada soprattutto al tramonto, quando fa più fresco, per l’aperitivo al cassonetto. Se la famiglia è minacciata, può caricare. Alcuni individui sono più selvatici, più coatti se vogliamo, ma è di base una bestia indolente che sa farsi gli affari propri.
La riserva naturale dell’Insugherata, polmone verde di Roma Nord, è uno dei più grandi parchi pubblici (740 ettari) e il più fecondo serbatoio di cinghiali della città. Qui intorno, la civile e bucolica convivenza tra il romano e il cinghiale trova la sua sublimazione. Il “Circolo ippico Parco dell’Insugherata” è proprio all’inizio della riserva. Pal, un ragazzo indiano che lavora nella struttura, racconta la questione cinghiali con ampi sorrisi: “Non danno fastidio – dice –. Ormai si sono abituati a noi e noi ci siamo abituati a loro. Arrivano qui ogni pomeriggio tra le sei e le sette, non sono mai aggressivi”. Laura, giovanile signora di Roma Nord, conferma: “Al massimo è successo che abbiano rubato i frustini, forse hanno spaventato qualche cane, ma non danno problemi”. Lungo la via ci sono i Giardini dell’Insugherata, lussuosa porzione privata del parco pubblico: villa per matrimoni, eventi e cerimonie. I cinghiali non sono mai stati invitati, nemmeno però si sono mai imbucati sgarbatamente, dice Giorgia, che lavora lì: “Li vediamo sempre fuori dai cancelli. Nessuno ha mai forzato le recinzioni”. Dei lord.
Altrove, la convivenza è in effetti meno idilliaca. L’arzillo Carlo Gerosa, 82 anni portati gagliardamente, mostra le aiuole dissodate tra i palazzoni di Valle Aurelia. “Guarda che macello che fanno”, indica le buche. Qui si narra una delle più recenti e brutali imprese cinghialesche: l’aggressione contro i bambini al parco giochi, sventata – secondo leggenda – dall’intervento del custode. “So’ povere creature, io sono pure animalista – giura Carlo –. Ma che si può fare? Li incontro spesso e mi carico in spalla il cagnolino. Vanno abbattuti”. Giulio Gualerzi, 40enne di Monte Mario, è ancora più prosaico: “Vanno seccati tutti”. Aggiunge, più serio: “Lavoro per le Poste e li incontro ogni mattina, fin troppo da vicino. Ho visto pure bimbi che gli danno da mangiare sotto gli occhi compiaciuti dei genitori, li trattano come animali domestici. Non tutti capiscono quanto siano pericolosi”. Lui sì: “Nel 2014 uno mi ha caricato mentre guidavo in via dei Due Ponti. Motorino distrutto, clavicola lussata, mi è andata pure bene. All’epoca i cinghiali non andavano ancora di moda… all’ospedale gli infermieri non mi credevano. Negli ultimi 10 anni il problema è stato vagamente sottovalutato…”.
Ora parleranno i fucili, gli “abbattimenti selettivi”. E quindi “ronde” di professionisti selezionati dalla Regione per far fuori i suidi. Gli specialisti – i selecontrollori – sono una categoria sottoposta a una formazione specifica, con un albo apposito e un esame, fanno sapere fonti della Salute. Saranno loro – e si spera loro soltanto – gli sceriffi deputati alla guerra agli ungulati (anche se al ministero un po’ si teme l’effetto far west). Ce l’avevano quasi fatta, i cinghiali, a diventare cives romani di pari dignità. Hanno finito per assomigliarci troppo.