il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2022
Wyndham Lewis stronca tutti
James Joyce è “una scimmia diligente”, capace di erigere “un monumento” come Ulisse “a mo’ di una diarrea da record”; Ernest Hemingway sembra un “bue muto”, grasso e taciturno come san Tommaso; William Faulkner è “il moralista con la pannocchia”, laddove la pannocchia è quella usata per deflorare la protagonista di Santuario. La lingua biforcuta da cui escono questi giudizi tranchant, invece, appartiene a Wyndham Lewis (1882-1957), pittore e scrittore di origini angloamericane, nato su una nave: dai flutti eredita il temperamento burrascoso e la nausea da mal di mare perenne.
Conosciuto soprattutto come fondatore del “vorticismo” pittorico – termine coniato dall’amico Ezra Pound –, Lewis è da qualche anno riabilitato anche come romanziere e critico, grazie in primis alla Oxford University Press: giovedì con Neri Pozza escono le sue invettive contro gli Uomini senz’arte, la parte ce la mette lui, la parte del guastafeste, del bastiancontrario, dello svelenatore professionista. Finora inediti in Italia, i saggi raccolti nel volume sono stati licenziati negli anni Trenta, quando Wyndham è ormai un uomo di mezza età che ha alle spalle una esposizione artistica importante, una esperienza di guerra come luogotenente d’artiglieria, la pubblicazione di memorie belliche, seguite da una serie di tele sul fronte, una rivista chiacchierata come The Enemy (“il nemico”, ndr) e un primo racconto di successo, Tarr, che T. S. Eliot recensisce entusiasticamente: “Lewis è il più grande prosatore della sua generazione, forse l’unico ad aver inventato un nuovo stile”. Il recensito però non ricambia il soffietto, sparlando persino del poeta, scaraventato molto più in là della sua Terra desolata: “È uno pseudocredente, l’ultimo agonisant dell’agonia romantica”, un intellettuale frigido che insegue e millanta verità ed esattezza inesistenti. E in ogni caso, “l’epoca di sistemi filosofici è passata”. Eliot, tuttavia, fa eleganti spallucce; anzi, rincara la dose degli elogi con maliziosa perfidia: “La sua critica è imparziale. È franco e spietato anche con gli amici (Pound, ad esempio, ndr). Nel mondo d’oggi non abbiamo critici così coraggiosi, così onesti, così intelligenti, e con una prosa così brillante”.
Guerrafondaio, misantropo, misogino, omofobo, antisemita o quasi, Lewis è un tipaccio, spesso controcorrente suo malgrado: nel 1931 pubblica, ad esempio, Hitler, in cui ritrae il führer come un innocuo vegetariano anticomunista. Forse è satira, ma viene condannata da tutti e rivista dalla stesso autore in The Hitler Cult, e l’abiura viene screditata come una beffa ulteriore e fuori luogo.
D’altronde lo scrittore-pittore si è sempre sentito “un pesce fuor d’acqua, quanto mai estraneo a tutti gli standard che vedo costruirsi intorno a me. Mi sono difeso come meglio ho potuto… contro le schiere di costruttori invasati”: è uno spirito squisitamente conservatore, reazionario, allergico alla moda, se non alla vita, “un solitario fuorilegge”, come spiega nell’introduzione Aridea Fezzi Price, che cura anche la traduzione. Lewis si dibatte tra i flutti di veleno “contro il demone del progresso e considera l’Inghilterra ‘la Siberia della mente’”.
I suoi bersagli sono “il decadentismo, il moralismo melodrammatico, il sessual-nazionalismo” – qui l’imputata è nientemeno che Virginia Woolf –, “i marxisti, i ‘mandarini’ di Bloomsbury opposti alla satira, i critici dei giornali”, i romantici e il romanticismo, gli idealisti, i relativisti, la “scuola del tempo” di Proust, Bergson e Einstein. In sintonia con quest’ultimi, Joyce è letteralmente e letterariamente massacrato: a parte l’Ulisse – a cui comunque Lewis non risparmia dardi: “È un ambiente freudianizzato, confuso, un immenso esercizio di stile, un’orgia di scimmiottamento diligente, un’enciclopedia di tecnica” –, nessuna opera dell’irlandese è “rilevante”. Joyce gli sembra solo “un maestro di scuola con la calma formale del gesuita; il poeta dell’intellettualismo decaduto, povero ma dignitoso; un Maupassant di Dublino, ma privo della forza sinistra del discepolo di Flaubert… Il suo è il mondo della piccola borghesia, adorna di un po’ di futile ‘cultura’”.
Più morbidi sono i commenti a Hemingway, un “grandissimo della narrativa” benché sia un “americano sempliciotto”, superficiale, senza “alcuna consapevolezza artistica” e refrattario alla politica: “Gli interessano solo gli sport mortali e amorosi, le cose tristi, gli squali toro e i cucchiaini Wilson (un’esca, ndr), la guerra” come fenomeno esteriore. I suoi romanzi hanno l’“effetto piatto di banale realtà”: questo “non è scrivere”, eppure l’americano possiede “una sua penetrante bellezza enunciata con genio bovino”. Tra le donne, vittime succulenti sono la Woolf – “povera smarrita aspirante scrittrice georgiana” – e l’odiatissima Gertrude Stein, una autrice petulante dall’“afflato ossessivo: un balbettio”.
Il cadavere eccellente da spolpare è però quello di Faulkner, “una seccatura priva di costrutto, un moralista calvinista, che si diletta, con occhio attento alle vendite in libreria, con scene di lacerazioni, trafitture, squarci ed escissioni… Un abominio se non una sozzura”. Uomo senz’arte, principe della raccolta, il Nobel è liquidato come romanziere melodrammatico e poco altro: in lui “c’è una gran quantità di poesia. E per nulla buona”.