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 2022  maggio 11 Mercoledì calendario

Il favoloso documentario di Procacci su Panatta & Co.

Se avessi vinto una partita di tennis ogni volta che in questo secolo ho sentito dire «Fandango sta per dichiarare bancarotta, questione di settimane», sarei Serena Williams. Passano gli ultimatum, e Domenico Procacci è sempre lì, sempre con quel talento per far raccontare storie a tizi la cui caratteristica precipua è l’essere, da adulti, il più figo della classe.
Una volta Francesca Archibugi ha quasi chiamato la croce verde perché ho detto che i film, specialmente quelli non di finzione, li fa chi li scrive: il regista è uno che decide dove mettere la macchina da presa, capirai. «Dove mettere la macchina da presa è fondamentale», sibilò col tono di una il cui sottotesto è «ma io perché perdo tempo a parlare con questa cretina».
Adesso Domenico Procacci non solo produce ma fa pure la regia della cosa più bella che abbia visto da parecchissimo tempo: “Una squadra”, storia della nazionale italiana di tennis degli anni Settanta, sei puntate su Sky e Now dal 14 maggio. Lo scrivono, con lui, giovani promesse come Sandro Veronesi; lo fa, il prodotto, la retromania di quando i talk-show erano sornioni, i rotocalchi erano familiari, le canzoni erano roba come Un giorno credi, Splendido splendente, Domani è un altro giorno; ma – sono abbastanza certa che Veronesi e Procacci concorderanno – tutto questo sarebbe robetta se in mezzo alla scena non ci fosse quello lì.
Uno dei pochissimi casi mondiali di vertiginosamente figo a trent’anni e vertiginosamente figo a settanta; uno che ti fa venire voglia di lanciargli le mutande quand’è arrogante (quasi sempre) e quand’è umile (quasi mai); quand’è esile (nelle immagini d’epoca) e quand’è inquartato (in quelle del presente); quando racconta versioni dei fatti diverse da quelle degli altri e gli altri sono Bertolucci e i due sembrano Sandra e Raimondo a distanza, e quando invece (con Pietrangeli) s’incazza se le versioni divergono. Insomma: Adriano Panatta – dio o chi per lui ce lo conservi.
La parte Rashomon è ovviamente la più divertente, ed è una di quelle sceneggiature che possono avvenire solo con materiale del secolo scorso. Oggi, di Panatta che va sugli spalti a menare il tifoso argentino (e per sbaglio ne mena uno italiano), ci sarebbero mille filmati fatti da mille telefoni, oltre che decine di nettissime immagini delle telecamere ufficiali. Allora, c’è una ripresa da lontano, in bianco e nero, in cui s’intravede imprecisata confusione tra gli spalti, e le versioni dei fatti raccontate oggi da quelli che c’erano, che com’è umano la dinamica la ricordano ognuno a modo suo. Neanche sulla regione di provenienza del tifoso pestato sono d’accordo.
(È tutto Rashomon tranne le partite, probabilmente unici momenti in cui erano presenti a sé stessi e l’amigdala faceva il suo. Cinquant’anni dopo, Panatta ricorda che il tal punto nella tal partita del tal torneo lo fece con una veronica dopo che il servizio era passato a quell’altro a metà del set).
In “Una squadra” sono stupendi tutti, anche quelli che ci sono solo tramite racconti altrui. Belardinelli, l’allenatore che prima di loro aveva allenato Mussolini, il quale non sapeva fare il rovescio. Duce, stamattina proviamo il rovescio. Belardinelli, anche stamattina andremo per diritto. (La racconta Panatta, mentre va un cinegiornale in cui Belardinelli palleggia con Mussolini, e pensi che TikTok non ha inventato niente).
Elenco non esaustivo di aneddoti meravigliosi presenti in “Una squadra”. Ovviamente riassunti da me non valgono: sta tutto in come li raccontano, come gesticolano, come si contraddicono. E sono tutti di Panatta e Bertolucci, il genere di attori che si mangiano la scena e ai comprimari Zugarelli e Barazzutti restano briciole d’attenzione. Forse c’è un secondo film da scrivere, sulle classi sociali diverse tra quelli che apparentemente sono parificati. Zugarelli così classe operaia, con una falange amputata «perché allora non si andava tanto per il sottile»; Barazzutti che prende un volo normale mentre quei due si scialano il premio partita sul Concorde. Forse certi dettagli che restano marginali potrebbero farne una storia fitzgeraldiana.
Intanto, però, c’è questa Squadra qui, con un numero di storie che neanche in un anno di cinema inventato.
La partita a Montecarlo in cui da sorteggio possono scegliere se servire o ricevere nel doppio, il trentenne Panatta sceglie di rispondere, e l’avversario ragazzino si avvicina: ma sei sicuro? Guarda che io servo molto bene. Panatta va da Bertolucci e dice oh, ma chi è ’sto brufoloso arrogante? Si chiama John McEnroe.
Il cinema romano nel quale Panatta va a vedere un film con l’allora fidanzata Loredana Berté con minigonna inguinale, e all’intervallo qualcuno dalla galleria urla: ah Pana’, e grazie ar cazzo che non vinci mai.
Bertolucci che per sbaglio riparte dai Roland Garros con le Superga di Panatta, a Parigi le Superga non ci sono, Panatta non vuole cambiare scarpe per la finale, chiama il proprietario del negozio di articoli sportivi da cui si serve a Roma, quello apre il negozio di domenica e porta le scarpe al caposcalo di Fiumicino che le consegna a un pilota. Pensa oggi, con quarantasette addetti alle p.r. dello sponsor che aspettano l’atleta con cento prototipi in apposita suite.
Gianni Minà che, tra un set e l’altro d’una partita che Panatta sta perdendo, va a mettergli il microfono in bocca mentre riprende fiato. «Era Gianni Minà: se era un altro, je dai ’na racchettata».
Panatta e Bertolucci che si tolgono il saluto, una di cento volte in cui si mettono il muso, ma quella volta nel mezzo d’un doppio.
Panatta che è lucidissimo nel dire che l’insofferenza della squadra nei confronti di Pietrangeli era dovuta all’impietosità dei trentenni verso i cinquantenni; Panatta settantenne e Pietrangeli ottantottenne che però ancora bisticciano a distanza su chi abbia vinto le partite più difficili. (La coppa Davis Pietrangeli la vince solo da capitano non giocatore, e ci si fotografa a casa col gatto che ci è finito dentro: Instagram un secolo prima di Instagram).
Bertolucci che ha come premio partita la pasta e fagioli che di solito non può mangiare perché gli altri non ingrassano e lui sì. (Bertolucci di grandissima lunga il più immedesimabile, non solo quando dice che rimorchiava gli avanzi di Panatta, ma anche quando arriva il cileno che lo chiama «Bertolucci el gordo»).
Pietrangeli che dice che dopo che l’han fatto fuori non si son parlati per cinque anni, poi una sera al Biblò di Cortina Panatta gli ha pianto sulla spalla; cambio scena, Rashomon: «Io non ho mai pianto sulla spalla di nessuno, tantomeno di Pietrangeli».
Pietrangeli che la prima volta che lo vede giocare dice a Panatta «a regazzi’, guarda che le palle corte le ho inventate io».
Borg che la sera prima d’una partita tra loro pretende di restare fuori a bere, Panatta vuole andare a letto ma lui insiste, se sei mio amico devi restare, «sì sono tuo friend, però non mi puoi rompe’ le palle». Alla fine è Panatta a mettere a letto un Borg così devastato dall’alcol da renderlo sicuro che il giorno dopo lo farà nero, e invece il giorno dopo quello è fresco come niente fosse. «A ogni cambio campo mi faceva I feel great, e io gli sputavo».
Newcombe sconfitto da Panatta; quando Galeazzi gli chiede cosa sia successo nella semifinale che porterà al gran dilemma – la finale della coppa Davis è nel Cile del Pinochet: l’Italia deve andarci o no? – risponde: è successo che lui ha vinto e io ho perso.
E il Cile, che apre la prima puntata e sembra che parli di oggi, coi cattivi convinti d’essere buoni che minacciano i giocatori che vogliono andare a giocare tra i mostri, «Brutto fascista, ammazziamo te e tutta la tua famiglia», i giornalisti che commentano «ma di danno a Pinochet je ne fa più se se ritira la Fiat che se se ritira Panatta», Modugno che canta «ma non mischiamo con faciloneria la dittatura alla democrazia». (Quando vanno a giocare in Sudafrica nessuno fa un plissé: mica tutte le buone cause sono uguali).
Il Cile che il documentario lo chiude, occupa quasi tutta l’ultima puntata, Panatta che alla finale pretende lui e Bertolucci mettano le magliette rosse, come simbolo, come protesta contro il regime, ma nessuno se li fila, nessuno lo scrive: la tv è in bianco e nero.
Vincono, tornano, e da parte delle istituzioni è più l’imbarazzo che la contentezza. «Sembrava avessimo sparato al gatto invece di aver vinto una coppa Davis», dice Barazzutti.
«Trovo che la continuità sia noiosa, ma molto noiosa», dice Panatta di sé. Se fossi amica di Procacci gli suggerirei di non firmare mai più per nessuna ragione al mondo una regia. Di lasciarci, come fece Margaret Mitchell, con l’illusione che ci sarebbero potuti essere altri cento suoi capolavori, e che sia stato un capriccio essere il genio d’un’opera unica.