il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2022
I malanni immaginifici di Proust
Tra Platone e Carlo Verdone sta Marcel Proust (1871-1922): col primo condivide la filosofia del corpo come prigione, “un essere d’un altro regno, da cui ci separa un abisso, che non ci conosce e dal quale è impossibile farci capire”; del secondo vanta il talento diagnostico-farmaceutico, sentendosi “più medico dei medici”, autogestendosi con le cure e dispensando a conoscenti e parenti i suoi rimedi miracolosi, dai sonniferi alle diete. Non tutto fila liscio, però, in questo “esercizio illegale” della professione: una volta il doc. Proust consiglia a un amico di difficile digestione una visita “psicologica”, convinto com’è che quella sia una malattia nervosa, mentale; ebbene, con “l’analisi”, l’amico risana lo stomaco, riprende a mangiare normalmente e gli si guastano i reni. Muore poco dopo: “La medicina è una scienza (?) esageratamente comica”.
Lo scrittore comunque continuerà a credere nei “trattamenti psicoterapeutici” e nelle “cure con la forza della persuasione”, come si evince dal minuto epistolario Il buon uso della cattiva salute (titolo che echeggia una citazione di Pascal), in libreria da giovedì con L’Orma: il libricino raccoglie una ventina di lettere tra il 1900 e il 1922, anno della morte. Oltre a “dispensare pettegolezzi freschi e sempre più scandalosi”, a raccontare i lavori in corso della Recherche, a disperarsi per le perdite in Borsa, frutto di azzardi e sciagurati investimenti, qui Proust si lamenta della propria “natura fragile… con l’andazzo da malato” ed elargisce pareri sulla “dispnea tossialimentare, i lavaggi intestinali, i diuretici, le patatine fritte… Sarebbe meglio che prima parlassimo un po’ delle deiezioni”.
Nonostante la sua sia una famiglia di dottori – il padre Adrien è un epidemiologo di fama internazionale – mentre il fratello minore Robert è oncologo e urologo, Marcel si sente più competente di loro: “A volte l’esperienza del malato è al corrente di tante inezie che la scienza del medico ignora”. Il patriarca tuttavia dubita dell’origine organica dei mali del figlio; perciò Marcel lo consulta per interposta persona, scrivendo bigliettini a sua madre: “Chiedi a papà che cosa vuol dire quando ti brucia mentre fai la pipì e sei costretto a smettere, per poi ricominciare, fino a cinque o sei volte nel giro di un quarto d’ora… Ma forse dipende dalla birra”.
Malato immaginifico, ma non immaginario, al netto dell’ipocondria, Proust soffre del “morbus litterarius” e sente di appartenere alla “magnifica e compassionevole famiglia dei nevrotici, che è il sale della terra… Tutto quanto conosciamo di grande sono i malati di nervi a donarcelo. Loro, e non altri, hanno fondato le religioni e composto i capolavori”. Degno erede del visionario Mosè o del malinconico Van Gogh, il romanziere francese spiega che “la cattiva salute è spesso il fardello di un animo troppo grande… Stati nervosi e poesie incantevoli possono benissimo essere manifestazioni inscindibili di una stessa potenza tumultuosa”. Eppure invecchia e “anche l’età è un male fisico”: sono lontani gli anni della giovinezza spensierata e famelica, quando bazzicava tra il Ritz e l’Hôtel Marigny, luogo di “omosessuali influenti”, in cui si eccitava guardando ragazzi masturbarsi o topi sbranarsi; una volta finì persino in un blitz della polizia e fu schedato come un “uomo di mezza età che vive di rendita, intento a bere con tre pederasti”.
Passati i 45-50 anni, le déluge: Proust non riesce quasi più a uscire di casa, angustiato dall’asma, dalla febbre da fieno, dai problemi cardiaci, dalla colite, dalla gastrite, dall’insonnia… Il suo regime farmacologico prevede oppio, “fumigazioni”, “polveri infiammate” che bruciano gli occhi, lassativi à gogo, sigarette antiasmatiche (!): per tirarsi su, assume caffeina e adrenalina; poi per calmarsi si fa di Trional, morfina e Veronal fino a tre grammi al giorno, due volte la dose massima consigliata. Per molto tempo sarà anche andato a letto presto la sera, come scrive lui nel memorabile incipit della Recherche, ma ora non riesce ad addormentarsi prima delle tre di notte, salvo poi stare sdraiato almeno 12-13 ore: “Solo per alzarmi e stare in piedi un’ora ho bisogno di un mese di esercizi preparatori”.
La sua è una vita spericolata. Si sveglia alle 16, o alle 18, e consuma un unico pasto ogni 24 ore, innaffiato di birra ghiacciata: il menù prevede “due uova alla crema, un’ala intera di pollo arrosto, tre croissant, un piatto di patate o di patatine fritte, uva, caffè” e chiede al medico “se questo pasto sia sufficiente”, nonostante non riesca a digerire “neppure un quarto di bicchiere di acqua di Vichy”, come la zia Léonie della fiction. Intanto, dalla domestica pretende 20-25 teli puliti al giorno: “Mia cara, un asciugamano usato due volte si inumidisce troppo e mi screpola la pelle”.
Di “personalità sensibile, nevrastenica”, Marcel vive recluso in una stanza, ossessionato da rumori e odori: nessun ospite può portare fiori o usare il profumo e, una volta entrato nella nuova casa in rue Hamelin (dopo aver lasciato lo storico appartamento di famiglia), Proust viene colpito da una violentissima crisi asmatica per la suggestione suscitata dalle rose dipinte sulla carta da parati. Morirà per una bronchite mal curata, lui che per tutta la vita aveva cercato di medicare i suoi, e altrui, malanni immaginifici. Sì, “la medicina è una scienza (?) esageratamente comica”.