Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  maggio 10 Martedì calendario

Damiano Michieletto si fa in tre

Damiano Michieletto lavora a tre grandi spettacoli, legati idealmente dall’idea del potere, che gireranno l’Europa. Giulio Cesare di Händel (domani a Parigi e nel ’23 all’Opera di Roma), Mass di Bernstein (1°luglio a Caracalla), e La fattoria degli animali da Orwell (nel ’23 ad Amsterdam, poi Vienna, Palermo, Helsinky...). 
È il regista italiano più richiesto all’estero e il più prolifico: dal 2003 ha realizzato 55 produzioni. Il rischio routine? «Sono consapevole che è dietro l’angolo, bisogna lavorare sodo. Io ho l’ossessione di opere nuove, di un festival di teatro contemporaneo che abbraccia, coinvolge, comunica: non auto referenziale, criptico, larvale, rivolto a una cerchia di esperti. Per Orwell ho cercato una prima italiana, non l’ho trovata e sono andato all’estero». 
Partiamo da Giulio Cesare. «È una meditazione sulla morte, il ritratto di un uomo di 50 anni che ha già avuto tutto il potere, è in Egitto e appena torna a Roma lo fanno fuori; non un guerrafondaio ma un potente solo, goffo, imbranato, che non ne combina una giusta; pensa che Cleopatra sia una serva e ne resta affascinato, la corteggia, non è una mangiatrice di uomini ma una donna insicura e senza una vera identità. In scena, con costumi contemporanei, si vedono fili rossi moltiplicati da un gioco di specchi che diventano un’enorme ragnatela che avvolge lo spazio, come se fossero dentro la mente di Cesare, è la trama del potere che riguarda una storia di colpi bassi, di tentativi di omicidio…». 
Anche la controversa Messa «pacifista» (in chiave di diritti civili, composta da Bernstein in memoria di J.F.Kennedy nell’America di Nixon, al centro di un’indagine dell’Fbi e stroncata dai giornali per il suo selvaggio eclettismo, un pezzo quasi sacrilego con protagonista un prete), ha una forte valenza politica: «Sarà uno spettacolo con molta danza che crea una drammaturgia dal punto di vista sociale e di lotta per la ricchezza. Il simbolo è un muro eretto e poi abbattuto. Bernstein mescola pop a canti gregoriani e la musica corrisponde a un senso di confusione ecumenica, il celebrante andrà in crisi. Cerco un rigore per non farmi prendere da una baraonda in cui finirei schiacciato: e dunque c’è una comunità attorno a un tavolo che è di festa e allo stesso tempo altare per uno sposalizio. Ma viene distrutto dal cinismo e dalla mancanza di fede di un gruppo di street singers, al posto del tavolo viene creato un muro dove appaiono scritte di odio e rabbia che sono i mattoni di quel muro; è ciò che ognuno di noi si porta dentro, pregiudizi, omofobia, razzismo. Resteranno le macerie, mi sono ispirato alla tela apocalittica della zattera di Géricault, disperati nel mare». 
La Fattoria degli animali, il tema è l’allegoria del potere declinato nelle varie epoche. Stiamo parlando di dittature». Orwell la scrisse nel 1945. «I tanti livelli di lettura danno spazio all’immaginazione. Il compositore Alexander Raskatovè un russo che vive a Parigi il cui padre fu perseguitato da Stalin. Non sono favolette di animali ma un racconto di sopravvivenza e libertà».