Corriere della Sera, 10 maggio 2022
Biografia di Veronica Pivetti raccontata da lei stessa
Sognava di fare la ballerina. «Sì, ma ero troppo alta, troppo magra e con i piedi troppo lunghi. Mia madre mi disse: quando alzi le braccia sembri un cavatappi. Il paragone mi fece capire che ero smisurata». Il sogno di Veronica Pivetti, dopo aver frequentato per tre anni una scuola di danza, svanì e cambiò direzione: «Ero convinta di fare la pittrice, infatti dopo il liceo artistico, mi sono diplomata all’Accademia di Brera e ho anche lavorato, per un periodo, nella bottega di un pittore».
Ma allora quando, come e perché ha iniziato a fare doppiaggio e poi l’attrice?
«È una storia che parte da lontano. Avevo 6 anni, ero figlia di un regista e di un’attrice, sin da piccola bazzicavo l’ambiente. Vengo notata da Bruno Bozzetto, che doveva girare uno spot pubblicitario con Maurizio Nichetti. Gli serviva una ragazzina che doveva aggirarsi, con aria spaesata, in una festa di adulti, dove per la prima volta venivano offerte olive snocciolate, le Saclà. Gli piaceva la mia faccetta assurda e mi scritturò. Ero molto divertita da questa nuova avventura, però terrorizzata dal dover mangiare le olive: le detestavo! Comunque fu il mio debutto da attrice, anche se, sempre da bambina ho iniziato il doppiaggio. La cosa curiosa era che, essendo piccola, per raggiungere il leggio troppo alto per me, venivo sistemata su una panca. È stata una vera e propria scuola, mi ha insegnato varie cose».
Quali?
«Il rigore assoluto di un lavoro serio e il dover aderire al personaggio che doppiavo: se tossiva dovevo tossire, se sbadigliava dovevo sbadigliare, se rideva dovevo saper ridere... Mi ha insegnato il buio della sala che è quanto di meno egocentrico possa esistere. Quando sei da solo, la tua faccia non la vede nessuno e l’unica cosa che conta è la tua voce, ti fa capire che sei al servizio del compito che ti è stato assegnato. Non ho mai avvertito la frustrazione del doppiaggio, è stato un impegno di grande dignità e divertente».
Gli episodi più divertenti?
«Siamo nel 1994, mia sorella era stata da poco eletta presidente della Camera. Adriano Celentano doveva fare la pubblicità delle ferrovie dello Stato e, nello spot, aveva bisogno di una voce femminile, quindi ascolta la semplice registrazione di tre voci: sceglie la mia. Lui non mi conosceva e, quando mi presento con nome e cognome, mi chiese scherzando: sei la cugina di Irene Pivetti? Rispondo, veramente sono la sorella. Era piuttosto strano che la sorella di un personaggio politico facesse il mio tipo di mestiere, comunque ho continuato a farlo e qualche anno dopo mi capita un altro episodio curioso: fare doppiaggio per il bellissimo film Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar. Il regista cercava una voce per il personaggio di Agrado, un transessuale, e fecero fare un provino sia a me, sia a un vero trans: bè, Almodóvar scelse me».
Il ruolo pubblico di sua sorella era ingombrante oppure le ha facilitato la carriera?
«Né l’una né l’altra cosa. Se avessi voluto anche io intraprendere la carriera politica, certo, la figura di Irene sarebbe stata ingombrante, basti dire che ancora adesso si sbagliano e mi chiamano Irene, ma ero impegnatissima su altro e cominciai ad avere belle occasioni, di cui lei non sapeva assolutamente nulla. Quando venni chiamata da Fabio Fazio per fare l’inviata a Quelli che... il calcio, furono i commessi della Camera a dirle che mi avevano visto in tv. Non mi sono mai sentita facilitata e nemmeno a disagio per il mestiere che svolgevo distante dal suo. E poi, diciamo la verità: nel mio ambiente è una tale lotta al coltello che darmi i ruoli solo perché ero la sorella di... mi pare davvero improbabile».
Allora è stata facilitata dai genitori, regista e attrice?
«Per carità! L’unica cosa che mi ripetevano era di star lontano dal loro lavoro, lo definivano un ambientaccio e hanno sempre minimizzato le mie performance, non volevano che mi montassi la testa».
La svolta arriva con Carlo Verdone in «Viaggi di nozze».
«Una pietra miliare. Ho avuto la fortuna non solo di lavorare con Carlo, ma di beccare un film diventato poi un cult e un personaggio, Fosca, che mi piaceva da pazzi, permettendomi di esternare la mia naturale timidezza. Quella moglie vittima di quel marito assurdo, vessata e dall’aria bastonata, mi ha sdoganato come attrice comica, dandomi la possibilità di mascherarmi in una figura avvilita, sfigata... E infatti, poi, mi arriva un altro ruolo da sfigata nella serie Commesse».
Un successo che la porterà poi a condurre con Raimondo Vianello ed Eva Herzigova, il Festival di Sanremo.
«Vengo scelta io vicino a Eva, una donna talmente bella, una modella conosciuta in tutto il mondo, inutile fare paragoni tra lei e me. E lavorare con un vero signore, divertente, spiritoso come Vianello. Tra noi tre un rapporto sul velluto, andavamo insieme a mangiare la minestrina nel ristorante vicino al nostro albergo».
Come mai, subito dopo quella esperienza straordinaria, l’hanno beccata a rubare in un supermercato a Roma?
«Follia pura. Ero reduce da un Festival stratosferico, dove mi avevano visto milioni di persone e io rubo un pacco di sottilette. Ma mi hanno beccato subito! Mi fermano all’uscita chiedendomi: signora cos’ha nella borsa? ovviamente ho immediatamente tirato fuori il malloppo e pagato quello che dovevo, scusandomi».
Un attacco di cleptomania?
«Macché! La classica bravata da idiota, che figura di m...».
E pensare che, in seguito, è stata protagonista proprio della serie «La ladra».
«Sì, ma lì rubavo a fin di bene, per regalare le cose alle persone bisognose».
Tanti successi, tra cinema, tv, teatro, libri... Perché venne colpita dalla depressione che racconta proprio nel suo primo libro «Ho smesso di piangere»?
«Come carattere, sono apparentemente un’estroversa, una mattacchiona, in verità sono un orso, mai stata socievole sin da ragazzina, al contrario di Irene che è leader di natura, socializzava subito. La depressione mi è venuta a causa di un problema alla tiroide: sono stata curata male, con un abuso di farmaci sbagliati. Però ho continuato sempre a lavorare. In quel periodo ero nel Maresciallo Rocca, con il mitico Gigi Proietti».
Depressa in una fiction-commedia: come ha fatto?
«Riuscivo a sdoppiarmi, fingevo e proprio questo mi ha aiutato: immergermi in un personaggio tutt’altro che drammatico, mi faceva uscire dal mio stato depressivo. Tra un ciak e l’altro, però, un fiume di lacrime e la mia truccatrice mi inseguiva per riattaccarmi sulle palpebre le ciglia finte».
E i compagni sul set se ne sono accorti?
«No, nemmeno Gigi se ne accorse. Nella depressione non ti frega niente di niente, invece io avevo un compito da svolgere ed è stato salvifico».
Perché poi ha pubblicato un altro libro intitolato «Mai all’altezza». All’altezza di chi?
«Di chiunque! È il racconto dell’inadeguatezza costante in cui mi dibatto sin da quando sono nata. Pur essendo conscia del mio valore, quando si tratta di relazionarmi con il prossimo mi sento sempre di meno. Pur avvertendo il calore del pubblico, non sono mai sicura di me stessa... è un imprinting che mi porto dietro sin da bambina. Ma nella seconda parte della mia vita, mi dedico all’esercizio di essere più in pace con me stessa».
La separazione da suo marito e il non aver avuto figli sono in qualche modo legati al suo carattere solitario?
«Niente di tutto ciò. Quello che abbiamo è quello che vogliamo. La separazione è una cosa che accade. Non ho avuto figli forse perché non li volevo così tanto. Se fossero venuti, penso che sarei stata contenta, ma l’importante è sentirsi liberi nelle scelte».
Nel suo terzo libro pubblicato l’anno scorso, «Per sole donne», ha parlato proprio di libertà, anche sessuale.
«È stato un romanzo spudorato, mi sono divertita a usare un linguaggio esplicito, usando termini proibiti. Oltrepassati i 50 anni ho sentito la voglia di parlare di sesso dal punto di vista femminile, perché non è vero che con la menopausa sei uno straccio sporco e tutto finisce... si vive la sessualità in maniera diversa. E poi ho raccontato anche di donne assatanate di libidine, di donne omosessuali... La cosa curiosa è che mi hanno detto: sembra un libro scritto da un uomo. Solo gli uomini possono parlare di sesso?».
E il nuovo romanzo è addirittura un giallo messicano: «Tequila bang bang».
«Mi sono posta il problema: sarò in grado di scriverlo? Una prova pazzesca perché in un giallo i conti devono tornare. Tutto è nato dal mio cellulare, il Nokia 3310, che è quello usato dai narcotrafficanti, perché non è intercettabile, ci puoi solo telefonare. E questo genere di cellulare è diventato protagonista della storia, ambientata in Messico. Nella storia che racconto, ci sono tanti omicidi, muore tanta gente, è molto sanguinario, splatter... sono un’ammiratrice di Tarantino. Lo definirei un noir comico».
Tanti libri e anche tanto teatro. Forse non a caso lo spettacolo con cui è in tournée adesso è «Stanno sparando sulla nostra canzone».
«È ambientato negli anni Venti, un secolo fa, e impersono Jenny Talento, una fioraia di giorno, spacciatrice di oppio la notte... e si parla anche, guarda caso, dell’epidemia della Spagnola».
È stata oppure è tuttora spaventata dal Covid?
«In genere, non ho paura delle malattie. Certo, la pandemia esiste, ma non mi ha preoccupato più di tanto. Mi preoccupa molto di più la guerra in corso. Se avessi Putin davanti, gli direi: dopo il Covid pure le bombe? Bè adesso basta!».