il Fatto Quotidiano, 9 maggio 2022
Musicisti convertiti al romanzo
A volte sospettano di aver sbagliato mestiere, perché la carta risuona meglio di una corda. Si mettono a scrivere qualcosa di diverso da una canzone – un romanzo, un lessico familiare, una fiaba – e capiscono che la musica silenziosa di ogni pagina può essere l’approdo elettivo dopo un’esistenza passata ad affabulare con la chitarra. Per questo la vecchiaia di un Guccini diventa luminosa, rivelatrice, un giallo via l’altro, tutti costruiti con Loriano Macchiavelli. Oppure c’è da scrivere di se stessi, ma come fidarsi di una star allo specchio nel pieno di un’operazione di marketing? Ti svelerà le sue zone oscure o si rintanerà nell’agiografia?
Come sia, la vocazione da scrittore è dentro la molla autoreferenziale di ogni musicista. Un upgrade, una sfida, un faro puntato sulla vanità creativa. Nessuno di loro si è mai sottratto alla tentazione di sognarsi Tolstoj o Cervantes. Se hai culo, vinci il Nobel per la letteratura: ma attenzione, non per i tuoi volumi, semmai per il musichiere. Chiedere a Dylan, che sui romanzi era ipertrofico (vedi Tarantula) e dunque scarso, mentre per Blowin’ in the wind lo avevano eletto collega di Shakespeare. Lennon? Due precoci esiti da paperback writer (nella traduzione italiana accorpati sotto il titolo comune Niente mosche su Frank) mentre già era incatenato alla leggenda Beatles; Leonard Cohen intrigava ne Il gioco favorito, da romanziere fatto e finito. Patti Smith centrava l’elegia giovanile nel memoir Just Kids, Neil Young spargeva genio grezzo anche ne Il Sogno di un hippy. Autobiografie? Sì, a patto di essere sinceri. Keith Richards è stato da applausi gaglioffi su Life (e avrà confessato un decimo delle malefatte), Bruce Springsteen da pacca sulla spalla nell’ammettere, dentro la sua Born to Run, una depressione che lo aveva spinto sull’orlo del suicidio.
Neppure gli italiani si sono sottratti al richiamo del foglio bianco, con esiti alterni. E lo stop della pandemia li ha indotti a compensare, freneticamente, il vuoto del palco con il pieno delle righe. Ne sono usciti a bizzeffe, nelle scorse stagioni: anche secondi o terzi prodotti letterari di cantautori o addirittura band alle prese con esperimenti di scrittura collettiva. Vedi la doppietta politico-generazionale de lo Stato Sociale (Il movimento è fermo e Sesso, Droga e lavorare) a confronto con i caustici Zen Circus (Andate tutti affanculo); o la prolifica Levante della trilogia di formazione (l’ultimo romanzo nel 2021, E questo cuore non mente) o il ritorno di Giuliano Sangiorgi (l’amarcord sentimentale di Il tempo di un lento), per non dire di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e i suoi pregevoli racconti, molto Nakobov, de I Vivi, l’eccentrico Dente autore delle Favole per bambini molto stanchi, il deludente Francesco Bianconi (Baustelle) alle prese con Il regno animale.
A parlare di sé, dopo short novel molto apprezzabili, è ora approdato Ligabue in Una Storia, prologo epifanico all’adunata di Campovolo del 4 giugno e la residency all’Arena. Spiega Luciano: “Nessun libro può contenere l’intera vita di una persona, ma si può provare a metterci tutti i ricordi che contano: quelli qui ci sono. C’è tantissimo della mia famiglia d’origine, di quella che ho messo su io, e della mia nuova famiglia; c’è poi tantissimo dei miei amici. Credo che non si potesse vuotare il sacco più di così, mi dicono sempre che sono timido, riservato ma con questo libro ho dimostrato il contrario”. E ancora: “Ho deciso di scriverlo per riconoscenza verso ciò che la vita mi ha dato: la esprimo anche nel brano uscito in contemporanea, Non cambierei questa vita con nessun’altra”.
Debutti narrativi? Non convince Un giorno nuovo di Marina Rei; più ambizioso l’affresco storico di Ermal Meta, Domani e per sempre, incentrato su un ragazzo albanese nel cuore della seconda guerra mondiale. Ma forse la cosa più riuscita la offre Pacifico nel nuovo Io e la mia famiglia di barbari, saga della sua tribù campana alle prese con l’emigrazione a Milano, in cerca di fortuna. “Ho scritto perché mia madre, negli anni, mi ha raccontato di noi, delle nostre origini e di quell’oscuro, magico ramo brasiliano del parentame. Volevo che le loro vicende trovassero ospitalità prima che svanissero per sempre. La zia che vaticinava la fortuna decodificando l’olio nell’acqua; lo zio ottantenne al quale fu proposta in sposa la mia giovanissima futura mamma, e fu lui a rifiutarla, perché lei aveva un buco nella calza. Ancora, il corteggiatore che lei respinse dopo un’uscita al cinema, rinunciando a un desiderio ricordato per tutta la vita: ma se avesse ceduto non sarei mai nato. E mio padre, che faceva le pulizie per Celentano, concedendosi un pisolino su quello che descriveva come l’enorme divano del Clan. Non casualmente, nel mio libro, c’è un’eco dell’Italia della Via Gluck”.