il Giornale, 9 maggio 2022
Intervista a Rebecca Bettarina, moglie del vero Zar di Russia
Ci tiene ad essere apprezzata per quello che fa Rebecca Bettarini. E di cose ne fa parecchie: scrive, è imprenditrice, si dedica al sociale. Figlia dell’ambasciatore Roberto Bettarini, ha girato il mondo sforzandosi di capire «il punto di vista» di ogni singolo Paese in cui ha vissuto. A 40 anni è la «zarina», sposa dell’ultimo (vero) zar George Mikhailovich, il Granduca Giorgio di Russia, erede della famiglia Romanov. Da studiosa di storia, dice di essere attonita di fronte alla «guerra tra fratelli». «È innaturale lo sterminio reciproco da parte dei membri della stessa famiglia», aveva detto qualche settimana fa la suocera Maria Vladimirovna Romanova, a capo della casa imperiale. «Russi e ucraini sono residenti di una patria comune». Sei mesi fa, quando è entrata nella famiglia dei Romanov, nemmeno Rebecca si sarebbe immaginata un conflitto del genere.
I media hanno molto parlato del suo matrimonio imperiale. Rappresentanze occidentali e russe assieme. Oggi sarebbe impossibile?
«Siamo stati fortunati. Soprattutto perché alle nozze non abbiamo avuto nemmeno un contagio da Covid. Certo avevamo previsto un tampone al giorno per tutti, noi sposi compresi. Ad ottobre quello era il grande problema per tutti: la pandemia. E poi, vede, cosa succede nella vita: chi di noi poteva immaginare che sei mesi dopo sarebbe accaduto tutto questo? La storia ci insegna che il mondo cambia in 24 ore».
Che effetto fa sentir chiamare «zar» il presidente Putin e non suo marito?
«È dai tempi della caduta dell’Unione Sovietica che i giornalisti stranieri chiamano zar i presidenti russi, e loro puntualmente rispondono che un presidente è a capo della Federazione Russa, cioè uno Stato basato su principi ben diversi dalla monarchia, e che loro sono eletti dagli elettori. Ciò detto nessun cittadino e nessun mezzo di comunicazione russo ha mai pensato che uno zar e un presidente abbiano qualcosa in comune. Nemmeno la famiglia imperiale vede in cosa le due figure si somiglino, ma capiamo che i giornali stranieri abbiano spesso un’immagine distorta della Russia attuale. È uno Stato che non si rifà né alla Russia imperiale né all’Urss. È una nuova entità che abbraccia i suoi mille anni di storia passata».
Le fa piacere quando la chiamano, soprattutto in Italia, zarina?
«Forse un amico una sera può avermi chiamato così scherzosamente. Guardi, io sono una persona pratica. A me fa piacere quando la gente mi conosce e mi apprezza per il mio lavoro con le fondazioni o per la mia personalità. Non mi preoccupo della forma ma della sostanza. Ciò detto sono conscia del fatto che diverse persone ora mi vedono non soltanto come persona, ma anche come un membro di una famiglia imperiale che ha fatto la storia della Russia e del mondo eurasiatico, e questo per me è una responsabilità. La Chiesa ortodossa ha canonizzato lo zar Nicola II e la sua famiglia e quindi in noi i fedeli ortodossi vedono i discendenti dei Martiri santi. Ho sempre ammirato mio marito perché sa portare questo cognome così conosciuto dappertutto nel mondo con grande responsabilità e ha sempre voluto usarlo per aiutare gli altri».
In lei si uniscono più tradizioni: quella di una Russia gloriosa e quella dell’Occidente. Lei, tra l’altro, scrive in inglese. Che senso ha oggi parlare di confini?
«Traduco io stessa i miei romanzi. Io i confini li ho sempre dovuti superare mettendomi in gioco per farmi accettare dall’altro, che spesso tra l’altro vedeva in me il diverso. Però le dinamiche che muovono le persone sono sempre le stesse ovunque: il fine ultimo di ogni genitore sarà il bene del proprio figlio in qualunque Paese e in qualunque cultura. Anche i sentimenti sono gli stessi per tutti gli uomini. Quello che cambia è la cultura e questo è un tesoro da preservare: sono millenni di storia che ci rendono diversi ed unici. Noi italiani cosa saremmo senza la nostra cultura da cui deriva la nostra genialità? Dobbiamo imparare a capire che le cose che ci accomunano sono sempre maggiori di quelle che ci dividono. Accettare le diversità degli altri è la massima espressione dell’intelligenza umana».
L’Italia ha espulso decine di diplomatici russi e le confische di beni agli oligarchi non si contano. Cosa pensa di questa tensione?
«Penso che nessun cittadino privato possa avere in mano gli elementi per giudicare o comprendere appieno le azioni di un governo. Posto che il fine ultimo di un governo è quello di fornire ai propri cittadini il massimo benessere e tutela possibile, posso solo immaginare che ogni attore coinvolto in questa vicenda stia agendo nell’interesse nazionale».
Da imprenditrice invece, cosa pensa cambierà dopo questo conflitto?
«Avendo studiato molta storia, ho imparato che le epoche finiscono. Segnano il passo davanti alle nuove dinamiche. Quello che in natura Darwin chiamava evoluzione, in economia e storia è ciclico, scandito da espansione e crisi. Spesso le persone pensano che le condizioni strutturali nelle quali siamo nati siano immutabili e che il futuro andrà sempre meglio del presente. In francese c’è un modo di dire che trovo molto bello: Si pensa sempre che gli alberi arriveranno fino al cielo e ovviamente non è così. Da piccola ho vissuto in Paesi che dalla mattina alla sera si sono trovati in guerra o con cambi di regimi repentini. Niente è mai immutabile, ma tutto alla fine passa. Penso che in periodi come questo bisogna saggiamente capire che la sola cosa veramente importante sono gli affetti, la salute ed avere di cosa vivere».
Un comunicato ufficiale della casa imperiale dice che è innaturale che membri della stessa famiglia, cioè Russia e Ucraina, si uccidano. Cosa ne pensa?
«I russi e gli ucraini sono fratelli accomunati da centinaia di anni di storia. Era tutto parte dell’Impero russo prima e dell’Urss dopo e per questo nel comunicato la Granduchessa parla del fatto che tutti gli Stati oggi indipendenti che hanno fatto parte dell’Impero russo restano comunque uniti da un concetto di Patria a livello spirituale e culturale, nel più alto senso del termine. Conosciamo moltissimi ucraini che vivono a Mosca e che si sentono a casa loro in Russia. Una fetta rilevante di russi ha nonni o genitori ucraini. Nessuno applica una differenza tra cittadini russi che vivono in Russia e cittadini di Repubbliche ex sovietiche oggi indipendenti che vivono in Russia pur essendo tecnicamente non più russi. Siamo tutti molto rattristati e attraverso la banca alimentare che gestiamo aiutiamo a Rostov sul Don tutti i fratelli russi e ucraini che dal 2014 ad oggi hanno avuto difficoltà».
Suo marito le racconta mai dei suoi antenati, delle glorie e dei dolori della dinastia del Romanov?
«Non tanto mio marito quanto mia suocera. La Granduchessa Maria mi racconta quelle che io chiamo le storie di vita vera dietro i personaggi che per lei sono prima di tutto parenti. La storia la conosciamo tutti dai libri, ma quelli che erano i caratteri, i tratti personali, i gusti di zar e regnanti europei, quelli non hanno prezzo. Premetto che non scriverò mai nulla su questi racconti perché non ritengo sia giusto divulgare informazioni private di famiglia e non mi piace fare leva sul sensazionalismo per promuovere il mio lavoro».
Pur avendo vissuto in vari Paesi, quali sono le cose care dell’Italia che porta nel cuore?
«È il mio Paese e per anni la nostra famiglia ha avuto l’onore di rappresentarla nel mondo. La passione e l’ammirazione con cui gli stranieri parlano dell’Italia non ha eguali. Bisogna esserne fieri».
E invece cosa ha amato subito della tradizione russa?
«La Russia è un Paese molto più europeo di quanto ci si aspetti. E gli abitanti sono gentilissimi. È un Paese con la taglia di un continente, con decine di culture diverse, di climi e etnie diverse. Dove si passa da -40 in inverno a +40 in estate. È un mondo a sé, una cultura di grande spessore, a cui si aggiunge questo spirito fatalista che hanno i russi che è proprio tipico della loro storia».
In che senso spirito fatalista?
«Ce l’ha anche mio marito. Quando io dico la speranza è l’ultima a morire lui risponde sì, ma tanto muore lo stesso».
Oltre al suo nome di battesimo, ne ha altri due: Georgina Perosch e Victoria Romanovna. Ognuno racconta una storia. Ci spiega cosa significano?
«Ho scelto di pubblicare i miei libri sotto pseudonimo semplicemente perché non ho mai voluto che la gente fosse attratta dai cognomi che porto. Ho scelto Perosch, comprensibile in qualunque lingua. Victoria Romanovna è invece il nome che porto per la Chiesa ortodossa e ha significato il mio cambio di fede. L’ho scelto in onore della bisnonna di mio marito, granduchessa di Russia Victoria Melita, nata principessa inglese e nipote prediletta della Regina Vittoria d’Inghilterra. La sua storia mi ha sempre colpito perché ha avuto una vita molto difficile. Era dedita alla beneficenza e anche dopo la caduta dell’Impero russo lei e suo marito, il granduca Kirill (primo cugino di Nicola II e rimasto a capo della famiglia imperiale in esilio) hanno trascorso la loro vita in esilio sempre cercando di aiutare i loro connazionali, il che non era scontato vista la situazione molto difficile in cui si vennero a trovare e l’estenuante propaganda anti Romanov che venne fatta contro la famiglia imperiale dai bolscevichi che per il resto della loro vita furono accusati delle peggiori nefandezze».
I suoi libri narrano di intrighi di potere, complotti vaticani, spy story. A che tipo di letteratura si ispira?
«Non mi ispira un tipo di letteratura, ma l’osservazione del mondo e delle persone. Ho uno stile mio e mi piace che, sebbene le storie siano completamente di fantasia, siano calate in un contesto realistico. Mentre scrivo, la trama si genera automaticamente nella mia testa e mi scorre davanti agli occhi come fosse un film che vedo solo io. Alle volte è un film d’azione, altre volte romantico. AristocraZy per esempio inizia come una bella storia d’amore che si svolge in ambienti altolocati. Questo perché volevo che il lettore respirasse l’aria da sogno ed un po’ fané di certi ambienti. Solo a metà storia il registro cambia per svelare una trama da thriller internazionale. Cumclave ha un fondo spirituale ed un registro linguistico più aulico perché ambientato in Vaticano. La Dea della bellezza è invece più violento nel linguaggio e nelle dinamiche proprio come è violenta la natura paradisiaca del Venezuela. Il ricavato delle vendite va in beneficenza alle nostre fondazioni che ogni anno aiutano famiglie in difficoltà economiche».
Oltre al Venezuela, in quanti Paesi ha vissuto?
«Ho vissuto 4 anni in Venezuela da adolescente: un paradiso. Grazie al lavoro di mio padre ho vissuto in moltissimi Paesi e diversi continenti. Medio Oriente, Sud America, Europa, Africa, Nord America. Il mondo è tutto bellissimo e la persona che sono oggi non esisterebbe se dentro di me non ci fossero tutte le esperienze che ho accumulato. Quando si è piccoli è difficile dover cambiare Paese ogni 4 anni. Sei sempre l’ultima arrivata, quella che non ha amici e non parla la lingua: l’estranea. Gli amici me li sono sempre dovuti guadagnare sul campo, dimostrando che ero capace di inserirmi nella loro mentalità e nel loro contesto. Una grande esperienza di umiltà. La lezione più grande che ho imparato da questo: non si possono mai giudicare gli altri con il proprio metro di giudizio, né con i propri riferimenti culturali. Scoprire una cultura nuova significa togliersi gli occhiali della propria ed indossare quelli con cui gli altri vedono la loro di realtà».