Corriere della Sera, 9 maggio 2022
Colbrelli parla dopo l’arresto cardiaco
BUDAPEST «Possiamo anticipare alle 9? Poi esco in bici». Impossibile tagliare i ponti con la vita che hai sempre fatto. Sonny Colbrelli, 31 anni, campione italiano ed europeo, re della Roubaix 2021, un arresto cardiaco all’arrivo della prima tappa del Giro di Catalogna il 21 marzo scorso, era ed è un corridore professionista del team Bahrain Victorious. Ha ripreso una vita normale dopo l’impianto di un defibrillatore sottocutaneo all’unità di Cardiologia dello Sport dell’Università di Padova.
È dura guardare il Giro d’Italia alla tv, Sonny?
«Non è facile, ma non posso fare a meno di seguire il ciclismo. Dalla tv mi accorgo di cose nuove: come si muove la squadra, come si comporta il leader. Nella pancia del gruppo pensi solo a correre».
E vedere l’olandese Van Baarle conquistare la «sua» Roubaix come è stato?
«Mi ha fatto male. Ero al ristorante con i parenti: a meno 100 km ho acceso la tv e non l’ho più spenta. Sei mesi prima ero lì, mi sono rivisto entrare nella foresta di Arenberg, schivare una caduta, attraversare il traguardo coperto di fango. Che ricordi…».
Com’è la sua giornata a un mese e mezzo dall’arresto cardiaco?
«Vado in bici intorno a casa: sono autorizzato a farlo. Mi godo il panorama, cosa che prima non potevo permettermi di fare, focalizzato com’ero sull’allenamento. Sto di più con mia moglie e i miei figli. C’è un ragazzino che vuole fare una tesina su di me: lo incontro, gli racconto le mie gare, la mia carriera».
In «Con il cuore nel fango», la sua biografia, scrive di aver scelto la bici per la sensazione di libertà. Oggi cos’è per lei?
«Era un lavoro, è diventato un passatempo che mi libera dai pensieri. È un cordone difficile da spezzare: io parlo e penso ancora da corridore. La bici mi ha dato e mi ha tolto. Ma la speranza è l’ultima a morire».
Christian Eriksen, ex centrocampista dell’Inter, per poter tornare a giocare a calcio è andato in Inghilterra. Di cosa è fatta la sua speranza?
«Non lo so, per ora non ci penso. Voglio immaginare che tutto torni al suo posto e io possa risalire in bici sul serio. La cosa più importante è essere vivo, in salute, al sicuro. Mi costringo a guardare avanti».
Come l’ha cambiata il dramma sfiorato?
«Adelina, mia moglie, dice che sono meno nervoso, teso, stressato. La mattina mi sveglio e penso: cavolo Sonny, hai solo una vita, tienitela stretta, incazzarti non serve. Molti che hanno avuto il mio stesso problema non ci sono più».
Nonno Cesarino, la cui foto lei ha sempre portato nel taschino, è il suo angelo custode?
«Sicuramente! In quegli attimi in cui me ne sono andato forse l’ho incontrato, non ricordo. Ma di certo mi ha protetto».
L’ultimo ricordo?
«Io che taglio il traguardo, il massaggiatore che mi passa l’acqua. Poi buio pesto. Mi sono risvegliato in ospedale, incredulo. Come può essere? Perché proprio a me? Non è una banalità: la vita può cambiare in un secondo».
Chi le è stato più vicino?
«Messaggi, tweet, telefonate: si è mosso il mondo. Mi ha scritto su Instagram anche Eriksen: non pensare a quello che è successo, guarda dove sono io adesso. Ho l’affetto della mia famiglia e della mia squadra, la Bahrain, che mi conforta. Mi è tornata indietro un’onda di amore pazzesca e allora penso che qualcosa di buono, nella vita, forse l’ho combinato».
Giro ‘99. Pantani con giù la catena sulla strada per Oropa, lei bambino di 9 anni a bordo strada. È lì che è scattata la scintilla?
«Sognavo di diventare pompiere ma lo spettacolo di Pantani in salita fu da pelle d’oca. Sento ancora l’adrenalina addosso».
Nel libro si descrive cicciottello, miope, asino a scuola. Come ha fatto un nerd a diventare Sonny Colbrelli?
«Con umiltà, perché quando sei in crisi una mano può dartela chiunque. E trascurando la scuola, errore che non rifarei. Ho iscritto mia figlia Vittoria all’asilo inglese, l’altro giorno è tornata a casa e ha detto: papi, hungry. Porca miseria, ho pensato, che bello! Ma soprattutto ce l’ho fatta credendoci: la ruota gira sempre».
Al ragazzino della tesina racconta anche di Sonny in fabbrica a 650 euro al mese?
«Certo. L’anno in fabbrica mi ha temprato: ho imparato il valore dei soldi, guai sperperarli. Timbrare il cartellino alle 5 di mattina è molto più difficile che scalare il Tourmalet. La fabbrica mi ha insegnato a meritarmi la bicicletta: negli anni, oltre al fisico, mi sono costruito una testa da professionista. Chi ha il fisico ma non la testa, si perde. Chissà quanti talenti inespressi ci sono in giro…».
Cosa resta della Roubaix?
«Un successo che non mi toglierà mai nessuno e la pietra-trofeo, qui in salotto. L’altro giorno è venuto il c.t. Daniele Bennati a trovarmi, quante trasferte abbiamo condiviso in Nazionale… Me l’hai fatta grossa, Sonny, ha detto; poi si è fatto una foto con la pietra. Dopo il Giro usciremo insieme in bici».
Il Giro, ecco. Qual è lo stato di salute del ciclismo italiano?
«Il Covid di Nibali, la bronchite che ha smezzato il gruppo… Non è stato un inizio di stagione felice per noi azzurri. Ma migliorerà. Al Giro il colpo di una tappa è possibile: penso a Albanese, Ballerini, Nizzolo in volata, Nibali in montagna. Nella classifica finale entreranno Ciccone e la rivelazione Fortunato».
«Con il cuore nel fango» è un titolo che le corrisponde anche oggi?
«Ho un cuore che si è fermato e ripartito. Più fango di così!».
La vita di un corridore comincia quando si spilla il pettorale sul petto, scrive.
«Metto in conto di non correre più, se questa è la sua domanda. Devo costringermi a essere realistico. Inizio a pensare cosa mi piacerebbe fare: di sicuro se non potessi più correre resterei nel ciclismo, il mio mondo, la mia vita».
Crede nel destino, Sonny?
«Sì. C’è un destino scritto per ognuno di noi, me lo sento dentro. Perché? mi sono chiesto allo sfinimento. Perché da campione italiano, europeo, della Roubaix? Perché proprio in quest’anno così importante, in cui potevo togliermi qualche altra soddisfazione? Ma non potevi aspettare un altro po’, arresto cardiaco del cavolo…?».