La Stampa, 9 maggio 2022
Il culto della Vittoria è stato inventato da Putin
Gli ucraini dovranno «praticare alla Russia un esorcismo»: è il commento del consigliere della presidenza Ucraina Mikhailo Podolyak agli «auguri di festa della Vittoria» che Vladimir Putin ha inviato al popolo che sta contemporaneamente bombardando, promettendo loro che «la vittoria sarà nostra, come nel 1945». I moscoviti critici verso il Cremlino già anni fa avevano coniato il termine di “pobedobesie”, un neologismo che si potrebbe tradurre più o meno come «essere invasati dal culto della vittoria». Che negli anni ha spostato gradualmente la venerazione dalla vittoria stessa sul nazismo ai suoi attributi liturgici: il rapper Morgenstern, che aveva criticato lo spreco di milioni di rubli per la parata annuale, vive ora in esilio, dal quale ogni anno chiede scusa per aver osato mettere in dubbio la più sontuosa ricorrenza di Stato.
Il 9 maggio è diventato la vera festa nazionale russa, molto più del 12 giugno che segna la fondazione della Russia post sovietica. Lo storico Nikolay Kolosov scrive nel suo libro “La memoria di massima sicurezza” che la vittoria nella guerra contro Hitler – molto più della stessa guerra – è diventata «il vero mito fondante della nazione». Il tripudio di bandiere e adesivi, manifesti e concerti, con bambini vestiti in uniformi d’epoca e fatti marciare in formazione a Z, e panini e torte pasquali con i simboli della “operazione militare speciale” in Ucraina, sembrano veramente sintomi di un impazzimento nazionale. L’identificazione tra la Seconda guerra mondiale – che in Russia si chiama Grande guerra patriottica, e viene presentata come uno scontro tra russi e tedeschi, con il ruolo degli Alleati ormai negato anche a livello ufficiale – e la guerra in Ucraina è ormai totale, come testimoniano le cartoline con soldati e soldatesse sorridenti e le date “1945-2022”. È la guerra che i nonni non hanno concluso, fermandosi a Berlino, quella contro l’Occidente, e il fatto che all’epoca a dividere Mosca dagli altri Alleati c’era un’ideologia comunista ormai defunta appare totalmente irrilevante.
Uno degli aspetti più paradossali, ricorda Andrey Pertsev su Meduza, è che il culto della Vittoria in realtà non esisteva nell’immediato dopoguerra, quando il 9 maggio non era nemmeno un festivo. Per vent’anni la parata della vittoria del 1945 è rimasta l’unica, per venire replicata nel ventesimo anniversario, e poi altri vent’anni dopo. L’ossessione della parata annuale, sempre più sontuosa, minacciosa e costosa (inclusi i lanci di missili speciali per disperdere le nuvole in caso di rischio pioggia), è un culto militarista voluto da Putin che, nonostante non avesse mai fatto un giorno in caserma, «non perde mai l’occasione di farsi fotografare accanto a un carro armato», ironizza lo storico Mark Galeotti sul Times. Ma anche la religione laica della vittoria nasce soltanto negli anni ’70, in epoca brezneviana. È stato in quel ventennio di “stagnazione”, come è stato poi definito, che i cantanti di regime hanno cominciato a eseguire in TV l’inno “Giorno della vittoria”, una marcetta trionfante che aveva sostituito le canzoni più tristi e solenni dedicate ai caduti da compositori sovietici contemporanei della guerra.
Era l’epoca della repressione del dissenso e della nascita di un primo, frustratissimo, consumismo, in un Paese che ormai aveva accettato in silenzio un fatto evidente: il comunismo era nel migliore del casi un’utopia, e la competizione con il capitalismo occidentale era stata persa senza possibilità di rivincita. I sovietici facevano code di ore per la carta igienica e il salame, e mentre in molte città di provincia veniva introdotto il razionamento e crescevano generazioni che non sapevano come fosse fatto il formaggio, a Mosca e Leningrado si dava la caccia ai jeans e i chewing gum di contrabbando. Al Cremlino abitava un Politburo di vegliardi, che si decoravano a vicenda con medaglie sempre più appariscenti, mentre la propaganda magnificava i trascorsi di Brezhnev sul fronte. L’introduzione del culto della vittoria era funzionale dunque non soltanto a dare a una nazione in crisi qualcosa di cui andare fiera, ma anche a giustificare la presenza di una gerontocrazia stalinista al governo.
È esattamente in quell’epoca che Putin è cresciuto e si è formato, assorbendo un’ideologia posticcia di un sistema già in crisi, per poi resuscitarla per un’altra crisi, stavolta fatta da lui stesso. Dopo aver promesso, senza riuscirci, di dare ai russi un Pil da Portogallo, oggi è lui a dover giustificare la resistenza al potere di una generazione di settantenni nostalgici che propongono un culto del passato perché non hanno un futuro da offrire. La modernizzazione sarebbe inevitabile quando fatale per l’Urss-2 che Putin cerca di rianimare come uno zombie con l’incantesimo della nostalgia imperiale (peraltro molto diffusa già all’epoca della sua giovinezza, quando l’idea di superiorità proposta dal comunismo, in cui non credeva più nemmeno la nomenclatura, aveva cominciato a venire sostituita con quella della supremazia nazionalista della Russia degli zar). Quella che oggi sogna di tornare al 1984 non è la nuova Russia postsovietica, che deve ancora nascere, reinventandosi un nuovo mito fondante: la Vittoria del 1945 – unico frattempo di storia sovietica che si era salvato dal collasso del sistema – non potrà più esserlo, dopo quello che è stato fatto in suo nome alle città ucraine.