la Repubblica, 9 maggio 2022
Inchiesta sugli inceneritori
Non bruciate i rifiuti. Il «no» al nuovo inceneritore di Roma è la madre di tutte le battaglie 5 Stelle. «La condizione di permanenza nel governo», minaccia Giuseppe Conte. Perché «bruciare l’immondizia è la negazione dell’economia circolare», lo fiancheggia Beppe Grillo. Ma proprio i grillini, oggi in guerra con il sindaco dem Roberto Gualtieri, durante la disgraziata prova al comando della Capitale di Virginia Raggi valutarono in gran segreto, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, la realizzazione di un nuovo, colossale termovalorizzatore: 600 mila tonnellate l’anno di pattume da gettare nei forni e convertire in energia. Lo rivelano documenti riservati di cuiRepubblica è in possesso e le testimonianze di ex assessori e dirigenti dell’era Raggi.
Atti e veleni che confermano le contorsioni del Movimento durante l’esperienza in Campidoglio. Una fase in cui valse tutto e il suo contrario – compreso il «no» alla discarica convertito in «sì» a Capodanno 2020 e di nuovo in «no» a maggio 2021 a causa di grane giudiziarie – con il risultato di trasformare in soli 5 anni l’intera città in un monumento di sudicerie, topi e cinghiali.
Le stesse contraddizioni investirono anche il M5S nazionale. Sotto il governo gialloverde, il ministero dell’Ambiente guidato dal generale Sergio Costa, gradito ai grillini e fiero oppositore degli inceneritori, nell’aprile 2019 sfornò un parere al piano rifiuti della Regione Sicilia che andava contro la seconda stella del Movimento, quella che simboleggia l’ecologia integrale. L’atto inseriva almeno due termovalorizzatori nel futuro della Sicilia. Quando l’intoppo affiorò sulle cronache nazionali, il dicastero di Costa fu costretto alla retromarcia e l’incidente fu imputato a un funzionario fedifrago.
A Roma, invece, non c’è nessun tecnico da impallinare. Come si scopre oggi, è stata sempre la politica a flirtare con l’idea di realizzare un inceneritore in città. Il primo a proporlo a Raggi, Massimo Colomban, vicino a Casaleggio jr e assessore alle Società partecipate dal settembre 2016 all’ottobre 2017. Da quella poltrona esercitava il controllo su Ama, l’azienda della nettezza urbana del Campidoglio. Da lì, racconta, «ipotizzai un termovalorizzatore, ma a quei tempi trovai solo un muro di gomma. Un pezzo del Movimento era per il «no» a qualsiasi forma di sviluppo, vedeva solo i lati negativi di questi impianti. Poi mandavano i tir inquinanti carichi di immondizia in giro per l’Italia, anche verso altri inceneritori, ma lontano da Roma». Sulle ragioni della testardaggine di Raggi, Colomban azzarda: «Il sindaco grillino di Parma, Federico Pizzarotti, all’epoca aveva rotto da qualche mese con il Movimento, proprio sulla questione dell’inceneritore. È possibile che Raggi non volesse fare la stessa fine». Visti i rapporti già plasticamente ruvidi con i vertici stellati.
Un secondo tentativo di realizzare l’inceneritore fu portato avanti qualche anno più tardi, quando la ricetta grillina, alla prova della realtà, si era già mostrata un bluff: la differenziata, che avrebbe dovuto galoppare fino al 70% entro il 2021, quasi 30 punti percentuali in 5 anni, non è cresciuta nemmeno di 3. Nel 2020 è retrocessa clamorosamente dal 45% al 43,8%. Poi si è assestata attorno al 46%. Allo stesso tempo, la produzione dei rifiuti è invece esplosa. Risultato: pile d’immondizia agli angolidelle strade, cassonetti stracolmi, ratti, cinghiali. E costi esorbitanti per i romani: la capitale spende circa 200 milioni all’anno per portare fuori da Roma e dal Lazio la sua spazzatura.
Non è un caso, allora, l’attivismo dei vertici del Comune stellato. Si cercano soluzioni. Disperate. Pinuccia Montanari, amica di vecchia data di Beppe Grillo e assessore all’Ambiente di Raggi dal dicembre 2016 al febbraio 2019, ricorda che alla fine del suo mandato «in giunta c’era chi vedeva con favore discariche e inceneritori». E ripesca un sms che le spedì Gianni Lemmetti, assessore con la delega alle Partecipate dopo Colomban, critico, addirittura sprezzante rispetto alla linea del «no» agli impianti tradizionali, incarnata in Comune proprio da Montanari, in asse con l’amico Beppe. «Lemmetti mi scrisse: venditori di fumo. Troppa università e poca discarica». Ma sono soprattutto le carte a parlare. Due documenti riservati, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, rivelano che il Campidoglio grillino discusse eccome la realizzazione di un termovalorizzatore. Il primo atto è datato 16 dicembre 2019. È una “bozza riservata” sulle “linee guida del piano industriale di Ama”. A spedire il documento al Comune è Stefano Zaghis, amministratore delegato di Ama e manager di stretta fiducia di Raggi, che lo ha nominato poco prima, a ottobre 2019, e che rimarrà in carica fino all’insediamento di Roberto Gualtieri. Il piano illustra tre diversi scenari per traghettare Roma fuori dalle secche dell’emergenza. Il terzo punto prevede la realizzazione di un «impianto di incenerimento con recupero di energia», un termovalorizzatore appunto, con una piccola «discarica per rifiuti pericolosi (per smaltire le ceneri volanti) di minore dimensione».
Parola più, parola meno, è esattamente la soluzione avversata oggi da Beppe Grillo, rilanciato dalla grancassa della propaganda 5 Stelle: «Bruciare i rifiuti è la negazione dell’economia circolare – scrive l’ex comico nell’ultimo post sul blog – a maggior ragione se si pensa che quest’impianto avrà bisogno comunquedi una discarica per smaltire le ceneri prodotte dalla combustione».
In Campidoglio tutto fecero tranne che cestinare il piano, inceneritore compreso. Lo svela il secondo documento riservato, stavolta su carta intestata di Roma Capitale e più precisamente del dipartimento Ambiente. Un ufficio in quel momento sprovvisto di assessore, quindi gestito dalla sindaca Raggi. Il report è datato 20 gennaio 2020. E, annotava la manager allora a capo della direzione Rifiuti, quel piano è stato prima discusso in Campidoglio per poi diventare oggetto «di valutazione da parte del Gabinetto della sindaca».
Insomma, il termovalorizzatore è finito sul tavolo di Raggi come ipotesi più che concreta. Nelle osservazioni del Comune non si rintracciano critiche all’inceneritore che, viene specificato, arriverebbe a trattare «600 mila tonnellate l’anno dal 2024». Anzi, si legge sempre nelle carte del Campidoglio, l’inceneritore «garantirebbe all’Ama l’autosufficienza nella chiusura del ciclo, con un risparmio dichiarato dall’azienda di circa 75 milioni di euro l’anno». L’unica pecca individuata dalla relazione è indipendente dalla volontà del Comune: «Il piano dei rifiuti regionale non prevede nuovi impianti di termovalorizzazione». Un ostacolo che Gualtieri ha superato chiedendo al governo poteri speciali, concessi con il decreto Aiuti, non votato in polemica dai ministri 5S.
Se i grillini nel 2020 non avallarono l’inceneritore di Roma, spiega un ex dirigente del Comune, fu più per ragioni logistiche che per altro: a quel punto mancava un anno e mezzo alle urne. E per realizzare il termovalorizzatore ce ne sarebbero voluti almeno due. «Non avrebbe avuto senso scalfire un totem del grillismo per una soluzione che si sarebbe concretizzata solo dopo il voto».
Le bizze dei 5S sui termovalorizzatori riguardarono però anche un altro impianto, quello di San Vit tore, già attivo e di proprietà Acea (controllata al 51% dal Campidoglio). In una delle riunioni più accese, l’inceneritore in provincia di Frosinone portò addirittura a un accenno di rissa. Scazzottata sfiorata, come ricorda Marco Cacciatore, consigliere regionale del Lazio ex M5S, ora tra le fila di Europa Verde: «Mentre i colleghi grillini in Regione erano nettamente in contrasto con l’aumento delle capacità di incenerimento di San Vittore, duole ricordare che i 5 Stelle in Campidoglio erano su ben altre posizioni. È con loro che Acea ha chiesto l’ampliamento del proprio impianto. Gli feci notare quello che stavano facendo, un vergognoso tradimento dei valori del Movimento, ma nessuno mosse un dito per bloccare l’iter». La quarta linea del termovalorizzatore è stata autorizzata qualche mese fa dalla Regione.
Una scelta che non ha soltanto un peso politico. Gli investimenti sugli inceneritori hanno una loro ricaduta economica di non poco conto, ancora più accentuata con la crisienergetica prima e lo scoppio del conflitto russo-ucraino poi. Di fatto, se l’Italia costruisse i 4-5 impianti di cui avrebbe bisogno per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione europea al 2035 (differenziata al 65% e conferimento in discarica non oltre il 10%) potrebbe sostituire fino al 5% delle importazioni annuale di gas dall’estero. Lo sostiene uno studiopresentato nel marzo scorso da Utilitalia, l’associazione che raccoglie le imprese dei servizi pubblici e che si occupano di energia, acqua e ovviamente smaltimento dei rifiuti. Come si arriva a questo calcolo? Intanto, va detto che già ora i 38 inceneritori (di tutte le taglie) attivi nel nostro Paese producono ogni anno circa 6,7 megawattora di energia elettrica, pari al 2,2% del fabbisogno nazionale. Ma per raggiungere gli obiettivi di Bruxelles occorre che negli impianti finiscano altri 2,7 milioni di tonnellate annue di rifiuti, che potrebbero produrre una volta bruciati un potere calorifico equivalente a 2,35 miliardi di metri cubi di gas. Il che corrisponde al 3% delle importazioni.
A questo bisogna aggiungere un altro 1,5% di importazioni equivalenti, se consideriamo il potenziale del biometano che può essere prodotto dai rifiuti organici. Per dare un’idea, tra il gas degli inceneritori che mancano all’appello e con nuovi impianti per il biogas, si potrebbe soddisfare il fabbisogno di energia di almeno 2,1 milioni di famiglie all’anno. Una dotazione di termovalorizzatori porterebbe un altro vantaggio economico: la riduzione della Tari, la tariffa che ogni cittadino paga per lo smaltimento dei rifiuti. Il fatto che vada in discarica ancora il 21% dei rifiuti italiani (con percentuali doppie nelle regioni del Meridione) costa agli italiani che non sono dotati di inceneritori 75 milioni all’anno di extracosti. È il prezzo che viene pagato per il cosiddetto “turismo” dei rifiuti: perché non tutti i Comuni hanno discariche a disposizione (o le hanno ormai chiuse da tempo) e sono costretti a far viaggiare i rifiuti verso i termovalorizzatori al Nord. In tutto, si spostano per la penisola più di 2,7 milioni di tonnellate all’anno. Secondo un’altra statistica, il 10% dei rifiuti prodotti nel nostro Paese non viene smaltito nella regione di provenienza. Poi ci sono gli extracosti che pesano sulle tasche di tutti gli italiani. Perché i ritardi nella chiusura delle discariche hanno portato l’Unione europea a sanzionare l’Italia: la violazione delle direttive comporta multe complessive arrivate a 70 milioni di euro ogni anno. Il panorama potrebbe sembrare negativo per l’Italia. In realtà, anche sullo smaltimento della spazzatura si conferma il quadro di un Paese diviso in due, con le regioni settentrionali che hanno medie di smaltimento e di riciclaggio dei rifiuti che competono con il Nord Europa.
Ma anche il Meridione ha le sue eccezioni. È il caso del termovalorizzatore di Acerra, che si occupa dello smaltimento di rifiuti di un’ampia zona della provincia di Napoli. A gestirlo è A2A, l’utility controllata dai comuni di Milano e di Brescia uno dei primo operatori a livello nazionale con l’emiliana Hera. Dalla Lombardia non hanno solo portato la tecnologia dei termovalorizzatori, ma anche un esperimento che – di fatto – è una risposta alle paure di chi teme ricadute negative per l’ambiente dai fumi degli impianti. Nei terreni attorno all’impianto di Acerra è stato replicato l’esperimento “ecologico” già sperimentato ai piedi dell’inceneritore di Brescia con l’installazione di alcune arnie. Le api vengono considerate come “sentinelle” per la qualità dell’ambiente circostante. Producono all’anno circa 70 chili di miele, regolarmente certificato. Lo sa bene Carlo Calenda. Il leader di Azione da candidato sindaco, vasetto di miele alla mano, visitò proprio il termovalorizzatore di Acerra. Oggi è il primo sostenitore dell’inceneritore di Gualtieri. Ne rivendica la paternità. E su Twitter rintuzza le uscite di Conte e Grillo contro l’impianto che Raggi aveva invece preso seriamente in considerazione.