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 2022  maggio 08 Domenica calendario

CAZZI E CAZZOTTI - ERA PUGILE, ERA NERO, ERA GAY. LA STORIA DI EMILE GRIFFITH, IL MITOLOGICO RIVALE DI BENVENUTI, RIVIVE IN UN LIBRO DI FEROCE BELLEZZA, “IN UN MONDO DI MASCHI” – LA SUA VITA FU SEGNATA DA UN'ATROCE TRAGEDIA: LA MORTE DI UN AVVERSARIO SOTTO LA TEMPESTA DEI SUOI PUGNI – LA FIDANZATA DI COPERTURA E LE NOTTI NEI LOCALI GAY DI TIMES SQUARE, LE DRAG QUEEN CON CUI SI ACCOMPAGNAVA, I BACI NELLO SPOGLIATOIO CON… - “HO UCCISO UN UOMO E MI HANNO PERDONATO, HO AMATO UN UOMO E MI HANNO CONDANNATO” - VIDEO -

ERA PUGILE, era nero, era gay. Troppo, per una persona soltanto e troppo negli anni Sessanta, troppo in America. La storia di Emile Griffith, che i lettori meno smart e meno digital ricorderanno per le memorabili sfide mondiali contro il nostro Nino Benvenuti, rivive ora in un libro di feroce bellezza, In un mondo di maschi (Mondadori): l'ha scritto Donald McRae, giornalista sudafricano, grande esperto di pugilato e razzismo. È il romanzo di un uomo e di un'epoca, un libro di storia e di geografia insieme, di antropologia e naturalmente di sport, quell'atomo che può contenere l'intero universo.

Emile Griffith fu segnato da un'atroce tragedia: la morte di un avversario, il cubano Benny "Kid" Paret, sotto la tempesta dei suoi pugni: era il 24 marzo del 1962, al Madison Square Garden di New York. Il poveretto aveva appena commesso un errore fatale: dare del maricòn, cioè del finocchio, a quella montagna di muscoli durante la cerimonia del peso, davanti ai cronisti.

Perché in tanti sapevano che a Griffith piacevano anche gli uomini, ma era impossibile scriverlo o ammetterlo: quei giorni erano lontanissimi anche soltanto da un'ipotesi di coming out. Del tutto impossibile, poi, che una simile confessione o ammissione potesse avvenire in un mondo machista e feroce come quello della boxe, e in un'epoca in cui l'omosessualità era un reato penale e veniva considerata una malattia, oltre che una vergogna. E allora Griffith si porterà dentro per sempre i "compagni segreti": la sua vera natura umana e sessuale e il fantasma di Paret, morto quando i cazzotti del maricòn finirono per spappolargli il cervello.

lord tutto muscoli La figura di Griffith è spaventosamente romanzesca, eppure è tutto autentico. La sua vocazione non sono i pugni ma i cappellini per signora, che disegna come il più elegante e raffinato tra i creatori di moda. Emile ha una voce flautata, è gentilissimo e bellissimo, veste come un lord e vive con una pletora di parenti e amici tra cui spicca una sorta di super mamma, la signora Emelda, che per tutta la vita lo chiamerà junior, piccolo. La carriera di Griffith dura vent' anni e 112 match, per cinque corone mondiali conquistate quando gli incontri erano visti in diretta da milioni di telespettatori e c'erano soltanto otto campioni del mondo, autentiche star.

Mani piccole e cuore dolente, Emile ha a lungo una fidanzata di copertura, Esther, che serve sia a lui sia al pugilato per nascondere l'indicibile verità. Tutti sanno delle notti nei locali gay di Times Square, delle drag queen con cui si accompagna, del giovane Calvin che è il suo ragazzo, lo sanno i due allenatori bianchi e i giornalisti che un giorno lo sorprenderanno mentre bacia un uomo nello spogliatoio, dopo un match. Ma dirlo non si può.

un rifugio chiamato galera Un libro di storia, non soltanto una vita dolente. Perché se oggi ci muoviamo, nonostante tutto, in un mondo migliore e più libero, lo dobbiamo anche a Emile Griffith, a quando in Sudafrica proclamò che mai e poi mai sarebbe salito sul ring di Soweto senza la presenza all'angolo dei suoi allenatori bianchi, in quel ghetto dove la legge ammetteva soltanto i neri. Alla fine vinse lui.

La storia si racconta e si cambia, tra fiotti di sangue addosso agli spettatori come da arterie recise e rumore di pugni che sono come colpi d'ascia sulla corteccia di un albero. Emile ha pelle lucida di cioccolato fondente, e danza dentro una musica.

Abbandonato dal padre nelle Isole Vergini dov' era nato, da ragazzino chiese asilo in un riformatorio pur non avendo commesso alcun reato, soltanto per poter vivere lontano da chi non lo amava, compresa l'impossibile mamma, e per sfuggire alla violenza sessuale di uno zio che lo violò quand'era soltanto un bambino: innocente ma in galera, ci restò per quattro anni.

Senza quell'insulto omofobo, che rischiava di sgretolare l'immagine pubblica essenziale a un campione del mondo, l'intera vita di Griffith sarebbe stata diversa. E lui non avrebbe mai rivolto agli amici più cari la frase che è riportata anche sulla copertina della biografia di McRae: «Ho ucciso un uomo e mi hanno perdonato, ho amato un uomo e mi hanno condannato».Quell'uomo morto tornerà a visitarlo in sogno, perennemente.

il perdono tanto atteso Sembrano cose di un altro mondo e di antichissime ere geologiche, invece è accaduto appena una sessantina di anni fa, quando Muhammad Alì cominciò a prendere a cazzotti il razzismo e gridò all'America che la guerra in Vietnam potevano farla senza di lui, «perché nessun vietcong mi ha mai chiamato negro».

Non tutti avevano il suo coraggio. Emile Griffith voleva soltanto guardarsi i cartoni animati e stare in pace, sul ring e con i maschi che amava e con i quali non poteva neppure ballare avvinghiato: reato, anche questo. Il mondo lo faceva sentire un malato, un reietto e un criminale. Per un gay non c'erano altre strade se non nascondersi, oppure vedersela con psichiatri, giudici e secondini.

Un pugile, poi, poteva essere soltanto "un vero uomo". Doveva esserlo. Faggot, frocio, se lo sentirà dire per tutta la vita anche se non più in faccia, e soltanto alla fine ammetterà qualcosa in un documentario su di lui. Ormai è vittima della demenza dei pugili, sta cominciando a dimenticare e campa con una pensione di 300 dollari al mese, quasi in miseria nonostante i milioni di dollari guadagnati per farsi ammazzare a poco a poco, lui che davvero uccise un uomo in una notte sola, tempestandolo con 23 terribili pugni alla testa nel corso di un round di cui esistono numerosi filmati: un'esecuzione capitale.

Il senso di colpa non lo abbandonerà mai, lenito in parte dall'incontro tanto atteso con il figlio dell'avversario ucciso: è uno dei momenti più toccanti del libro. Prima di essere portato in ospizio e morire, il 27 luglio del 2013, Emile Griffith riceverà la grazia di ascoltare le parole di un orfano che gli dice «tranquillo, non ce l'abbiamo con te». Sarà una strana, preziosa intimità avvolta dal dolore, come quella dei pugili dopo il combattimento, abbracciati e non più soli.